Spengo la televisione. Riccardo Iacona, su Rai Tre, stasera mi ha raccontato in presa diretta lo scandalo romano di Parentopoli. Poco prima era stato il momento di Affittopoli e, andando un po’ indietro nel tempo, a memoria, Vallettopoli, Calciopoli, Tangentopoli… Vuoi o non vuoi la “politica” ritorna sempre, nella quotidianità, nascosta tra le interviste dei telegiornali e le inchieste, tra le analisi di ciò che ci succede attorno. Con essa ritornano anche tutte le discussioni da bar, libreria, piazza, casa, università. Discussioni che finiscono sempre con il chiedersi come sia possibile tanta idiozia nella gestione della cosa pubblica, tanta superficialità e così poca lungimiranza.
La risposta è spesso banale, e forse vera, ma mai soddisfacente. Nel suo libro Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, edito da Donzelli (2010), Paolo Berdini mi aiuta a dare una risposta più ragionata, raccontando i circa settant’anni del fenomeno che ha letteralmente devastato il territorio italiano, da nord a sud, dalle coste all’entroterra, dalla città alla campagna. Utilizzando come paradigma l’abusivismo edilizio e la sua storia, riesco a capire meglio i motivi delle scelte scellerate che quotidianamente si compiono sui territori (vedi discariche e grandi opere).
La storia dell’abusivismo che racconta Berdini, come forse quella di ogni altra “poli” tutta Italiana, ha origini lontane. Prendendo come punto di partenza l’Italia fascista, evidenzia come “all’epoca la violenza di massa e lo stupro delle fragili istituzioni liberali si svolse nell’acquiescenza convinta, nella vigile indifferenza e grazie al sostegno della stragrande maggioranza di tutti i settori della classe dirigente del tempo; dalla monarchia alla grande industria, dagli agrari del nord all’aristocrazia baronale siciliana, dai vertici dell’accademia alle alte gerarchie del Vaticano”. Già negli anni Trenta, il piano regolatore della capitale conteneva in nuce i germi di un modo di gestire lo sviluppo urbano basato sulla discrezionalità, ossia sulla capacità di contrattazione tra proprietà fondiaria e quella che all’epoca era l’autorità governatoriale, cioè l’amministrazione.
Se da un lato si vietavano le lottizzazioni a scopo edilizio, dall’altro si diceva che il divieto era vincolato al parere della stessa amministrazione. In questa contrattazione raramente prevaleva la normalità, lo stato di diritto, e più spesso invece gli interessi di quella che oggi i talk show chiamerebbero “la casta”. Inoltre già all’epoca, seppur non inserita in un quadro legislativo come oggi, la deroga alle norme era lo strumento per gestire eventi che avrebbero richiesto piani e progetti che altrimenti non avrebbero favorito l’oligarchia. E se nel ventennio, nonostante i tuonanti discorsi pubblici su ordine e rispetto delle regole, questo fu il modo di gestire lo sviluppo della città, non diversa fu l’eredità raccolta dall’Italia repubblicana. L’autore spiega bene quanto la questione della gestione del suolo affondi le sue radici in un terreno franoso, e quanto questo terreno sia intriso di cultura populista e interessi economici.
Il 19 luglio 1966 frana l’intera parte occidentale della città di Agrigento. Crollano ottomilacinquecento vani in contrasto con le norme edilizie (e con quelle del buonsenso) costruiti abusivamente. Le immagini dei templi greci assediati dal cemento fanno il giro del mondo, l’opinione pubblica come sempre s’indigna. La magistratura rinvia a giudizio amministratori e tecnici, mentre il sistema politico con la Dc capofila difende gli imputati. Dopo quasi dieci anni di processo tutti assolti per non aver commesso il fatto, e il segnale alla “industria delle costruzioni” è più che mai chiaro ed evidente. Non c’è bisogno di aspettare quindi il primo condono del pentapartito di Craxi, nel 1985, per rendersi conto di come il rapporto malato tra chi amministra e la collettività sia una questione tutta culturale e non tanto lontana nel tempo. Berdini continua a sviscerare le questioni una per una, componendo il mosaico con massima cura. Racconta di come si è arrivati a quel condono e di come con quella sanatoria, strumento politico più che amministrativo, un fenomeno che era solo in parte questione di necessità sia diventato irreversibile. C’è un filo conduttore, a volte spesso e visibile, altre volte sotterraneo, che lega le lotte degli ischitani contro le demolizioni di quel diluvio di cemento che ha invaso l’isola, alla frana di Sarno. C’è una connessione, molto forte, tra i condoni del 1994 e del 2003 e la politica delle “grandi opere”, l’auditorium di Ravello, le piscine di Anemone, il ponte sullo stretto di Messina, il Mose di Venezia, la casa dello studente a L’Aquila; tutte questioni apparentemente separate che nel libro vengono legate tra loro cancellando ogni illusione o alibi. E non ci sono solo racconti puntuali. C’è un quadro d’insieme fatto anche di numeri e statistiche, anche queste spiegate puntigliosamente, a scanso di equivoci, per arrivare alla conclusione che dal 1948 a oggi in tutta la nazione sono stato compiuti duecentotre abusi e realizzati venti edifici abusivi, al giorno.
Per quanto breve, e forse troppo caro, questo volumetto descrive alla perfezione le condizioni in cui versano le nostre coste, i centri storici, le isole e le montagne, o meglio quel che ne rimane. Descrive alla perfezione il paesaggio che vediamo dall’Asse Mediano così come lungo qualsiasi altra strada o autostrada di quello che era il bel paese. Lo fa guardando ai processi di costruzione più che all’estetica, che pure ne è diretta conseguenza. Lo fa ricordandoci di continuo che ogni qual volta ci indigniamo perché muoiono degli operai nei cantieri o cittadini sotto frane e alluvioni, le responsabilità sono precise, rintracciabili all’interno di un quadro storico, culturale, politico. In questo libro Berdini non racconta dell’ennesima “poli”, racconta dell’Italia. (antonello colaps)