da horatio post
Ancora in volo sul gigante ferito, la partenza è dall’Aeroporto militare, in una mattina grigia di nuvole, l’elicottero dei carabinieri si solleva, resta sospeso in aria, il giovane pilota è Tom Cruise spiccicato, aspetta l’attimo giusto, poi taglia veloce le piste di Capodichino, attraversa la zona orientale, l’area dei petroli, in un niente siamo sul vulcano. Sono con il colonnello Angelo Marciano dei Carabinieri Forestale, con Stefano Mazzoleni, ecologo della Federico II, e con Riccardo Siano, tutto imbracato, toccherà a lui poverino sporgersi dal portellone aperto e catturare le immagini del vulcano bruciato.
Giriamo subito dietro il vulcano, il drappo verde dei castagneti, sui valloni del Somma, è striato di bruno, come in un innaturale autunno precoce. Stefano mi spiega che sono le chiome degli alberi scottate dal fuoco, che si è propagato veloce nel sottobosco, poi è divampato verso l’alto, formando sulla cresta cupi ventagli neri di foresta completamente arsa.
Dall’alto, il manto vegetale del grande vulcano appare lacero, consumato dopo l’estate di fuoco. Sul versante di Terzigno, la grande pineta è ridotta a un alone di cenere, con un arcipelago di chiazze verdi superstiti, cerchiate di bruno; si vedono già alcuni segni d’erosione, lunghe colate di suolo e detriti; grazie a Dio sono ferite localizzate, da curare in fretta; come in fretta, tra i carboni, c’è già il verde dei germogli di lecci e robinie, i segnali dell’ecosistema che riparte.
Alla fine, in una contabilità drammatica, che non ha precedenti, sono andati distrutti o danneggiati dagli incendi sul Vesuvio poco meno di duemila ettari: settecento di pineta (il quaranta per cento dei boschi di conifere piantati cinquant’anni fa), trecento ettari di boschi di latifoglie, i restanti mille ettari sono un mosaico di ginestreti, praterie, vegetazione pioniera, con il fuoco che non ha risparmiato nemmeno le distese lanuginose di licheni sulla colata del ’44 che ora, nella Valle del Gigante, è un fiume nero di antracite.
L’elicottero si libra sulla cima, sorvoliamo il cratere di rocce rosse e grigie, è uno spettacolo che emoziona, ti ricorda che il vulcano, per quanto imprigionato in mezzo alla città, rimane un dio potente, un monumento naturale tra i più famosi e amati del mondo.
La domanda urgente, cui dare risposta, è come gestire quel trenta per cento del territorio italiano, quasi nove milioni di ettari che, stando ai dati dell’Inventario forestale nazionale, è costituito da boschi: aree verdi multifunzionali, assolutamente preziose per la salute dell’ecosistema, la riproduzione dell’acqua, dell’aria e del suolo e che, come nel caso del Vesuvio, dopo la sovra-urbanizzazione del paese dell’ultimo mezzo secolo, non costituiscono più una dimensione remota, ma qualcosa che è ormai prossimo alle nostre case e alle città, che può rivelarsi quindi risorsa benigna, portatrice di svago, biodiversità e paesaggio; ma anche insidiosa sorgente di rischio, quando prende fuoco o, come a Sarno, ci frana improvvisamente addosso.Certo, la lezione dell’estate 2017 dobbiamo comprenderla e studiarla bene, i dati del satellite Copernicus dicono che è stato l’anno nero degli incendi in Europa, con il Portogallo che è risultata la nazione più colpita in termini di superficie boschiva interessata, in uno scenario di cambiamento climatico che ha mutato radicalmente le condizioni di rischio. Poi viene l’Italia, che è in testa per numero di incendi, e che ha pagato probabilmente un prezzo al recente riordino delle competenze, con la scelta di affidare ai soli vigili del fuoco il compito dello spegnimento, e ai carabinieri forestali quello della prevenzione. Sul Vesuvio, quest’estate, i vigili del fuoco hanno fatto un lavoro eccezionale per difendere le abitazioni e le vite umane, evitando una tragedia dai contorni maggiori, ma è risultato evidente come l’attuale strategia di intervento non comprenda ancora la protezione del bosco, oltre che quella nostra e delle nostre case.
In Campania, ulteriori difficoltà sono venute dalla riorganizzazione che c’è stata, proprio quest’anno, dell’anti-incendio boschivo, passato dall’assessorato agricoltura e foreste, alla Protezione civile. A questo s’è aggiunto il fatto che, negli anni passati, le squadre di intervento erano dirette da personale del corpo forestale, che ha perso questa competenza, e ora bisognerà formare in fretta duecento direttori operativi di spegnimento, un compito delicato, che richiede autorevolezza e sagacia, una profonda conoscenza dei luoghi e del comportamento del fuoco, oltre che, naturalmente, la capacità di coordinare l’intervento aereo, assieme al lavoro delle squadre.
Poi c’è la prevenzione, che rimane compito del corpo dei carabinieri forestale, ed è un concetto anche questo che va ripensato. Una missione che comprende certamente l’attività di repressione e controllo dei reati contro il patrimonio forestale, e qui probabilmente, come mi spiega Angelo, è anche necessaria una manutenzione della legge quadro del 2000 in materia di incendi boschivi, che individua una serie di comportamenti illeciti, per i quali manca poi una sanzione adeguata, rendendo vano il loro perseguimento.
Ma tenere in ordine nove milioni di boschi in Italia – una superficie in costante aumento a causa dell’abbandono agricolo – non è solo un problema di repressione, perché molto dipende dalla gestione, dalla cura costante e quotidiana delle foreste, per renderle più resistenti al fuoco, e più resilienti, cioè maggiormente capaci di recupero dopo l’incendio. In un’intervista a Radio Rai dello scorso giugno Davide Ascoli, docente del dipartimento di Agraria, ricordava l’indicazione dei maestri: “Gli incendi si combattono venti anni prima”.
Bisogna riannodare i fili, coordinare un’azione di lungo respiro dei diversi livelli istituzionali, costruire in questi tempi difficili di cambiamento una comunità di scopo, dallo stato centrale alle regioni al volontariato al mondo della ricerca, organicamente impegnata nell’obiettivo ultimo, che è quello di proteggere l’ecosistema Italia, del quale il grande vulcano che stiamo sorvolando, ferito e acciaccato, ma vivo, costituisce un simbolo, un pezzo importante. (antonio di gennaro)