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20 Novembre 2017

L’orrore quotidiano e la civiltà del malessere. All’Elicantropo, Il teatro delle Bambole

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(disegno di mala)
(disegno di mala)

Pur subendo gli effetti nefasti di una legislazione che tende a discriminare le realtà che resistono ai riti della Società dello spettacolo, il Teatro Elicantropo continua a svolgere la sua attività laboratoriale e formativa, ospitando gruppi teatrali che hanno fatto della ricerca la loro esperienza fondativa. È quasi un miracolo la resistenza di questo teatro in una realtà come quella napoletana, in cui diventa sempre più arduo lavorare a  progetti estranei a programmazioni (anche istituzionali) spesso scontate, e in ogni caso poco aperte alla sperimentazione di nuovi linguaggi espressivi.

In questi giorni, nella piccola sala di vico Gerolamini, ha debuttato (dal 16 al 19 novembre) Il teatro delle Bambole, un gruppo teatrale barese che ha sede in una Masseria nella zona periferica di Modugno, e porta avanti una drammaturgia che si ispira al lavoro sul suono e la voce di Gisela Rhomert e alla poetica di Hermann Nitsch, padre dell’Azionismo viennese, di cui alcune settimane fa è stata presentata una delle performance più estreme a Casa Morra, nello spazio museale di Materdei.

Lo spettacolo che il gruppo, per l’allestimento e la regia di Andrea Cremarossa, ha messo in scena all’Elicantropo nasce qualche anno fa dal progetto di ricerca La lingua degli insetti. Cofanetto 3: La caduta e ha per titolo Se Cadere Imprigionare Amo. Suggestioni dal respiro di una crisalide; titolo ermetico che sembrerebbe lontano da qualsiasi esperienza legata alla nostra quotidianità. Invece, già dopo le prime scene, si ha immediatamente l’impressione di essere catapultati nella cronaca più spietata del nostro tempo, dove le relazioni umane e sociali sembrano implodere lasciando sul terreno solo “resti”.

La pièce prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto.  Un giovane viene violentemente sodomizzato dai suoi amici con un tubo ad aria compressa; i genitori degli autori della violenza prendono le difese dei loro figli sostenendo che si sia trattato solo di un incidente, del frutto di uno scherzo, di una ragazzata, di un banale gioco tra amici. Come in una pellicola che si riavvolge dalla fine, la storia ci illumina sul degrado umano e sociale che ha prodotto questa devianza e questa cultura “familistica”. E ci spinge a osservare più da vicino, come da un microscopio, quel processo di inarrestabile deflagrazione dell’istituto familiare, specchio della più generale perdita di senso della società in cui viviamo.

La scena è molto scarna, allo stesso tempo minimale e spettrale. Nella penombra si scorge appena una donna incinta, Italia, seduta e raggomitolata nel suo corpo come in un bozzolo di una crisalide. Più in là, in un cimitero, due fratelli, Salvatore e Filippo, si muovono a scatti, con movimenti meccanici, animaleschi, e sono intenti a sistemare fiori su due tombe su cui sono affisse le foto delle loro sorelle defunte. «Andrebbero pulite queste tombe», urla a un certo punto la donna che si agita anche lei con gesti scomposti, quasi evocando una danza rituale e primitiva. «Il cemento è diventato nero».

Lentamente prende corpo la storia. Che è la storia drammatica di un padre assente, che vive con la pensione di falso invalido, di una madre incestuosa e violenta, che si prostituisce per necessità e si trasforma, senza ragione, in una criminale che non ha avuto esitazione a lanciare nel vuoto la sua bambina causandole una invalidità permanente; un gesto atroce che riaffiora nella sua mente come un incubo che non le consente di riconoscere il proprio male, l’assoluta assenza di qualsiasi sentimento di umana pietà e di vicinanza all’altro. «Io rifarei tutto quello che ho fatto, anche buttarti dal balcone», dice a un certo punto, quando le ritorna in mente l’azione del crimine.

Pochi sono gli squarci di luce in questa bolgia infernale, dove si rincorrono solo pulsioni di morte e non si riesce più a distinguere il bene dal male, le vittime dai carnefici.  Il teatro si fa spesso specchio di quei conflitti che ci allontanano dal senso più autentico del nostro vivere, mentre lasciano affiorare le trame più nascoste della nostra coscienza.

Lo spettacolo, come abbiamo accennato, insiste sulla crisi dell’istituto familiare, che non  rappresenta più un punto di riferimento per una nuova generazione che vive sempre più alla mercé degli idoli del consumismo e del mercato. In fondo questo fallimento, questa “caduta” (come la chiama il regista) e questo smarrimento non sono altro che il riflesso della perdita della memoria di una comunità. In Pastorale americana, in anni lontani, Phliph Roth lanciò un allarme sul vuoto in cui siamo immersi, mostrandoci per la prima volta una gioventù americana allo sbando, senza più alcun punto di riferimento ideale, che rincorre la violenza più gratuita in una piccola città di provincia. Anche questo spettacolo, allusivo della cronaca più crudele del nostro paese, lancia un allarme; un monito simbolicamente rappresentato dal suono di una sirena che sembra preludere a nuove, imminenti e più tremende catastrofi.

Un filo di speranza sembra scorgersi, in modo del tutto inatteso, solo in quei brani poetici, sussurrati da una voce fuori campo, che evocano la contemplazione della natura e il sogno di un orizzonte umano in armonia con gli elementi primari del cosmo. «Ma guarda che casino di stelle, è pure è giorno»; o in quella canzoncina dedicata all’amore cantata alla fine da Italia. Ma è solo un attimo, una breve illusione. Perché nel finale, dopo che i personaggi si scambiano violente accuse in dialetto pugliese, si tornerà a stuprare, violentare e uccidere senza pietà e ragione. Dal punto di vista drammaturgico, il testo, soprattutto nel recupero della forza espressiva della parola e nel mostrarci le allucinazioni che imprigionano il personaggio femminile, fa pensare a certe eroine ruccelliane soggiogate da forze oscure e da un inguaribile male di vivere.

Molto bravi gli attori (Silvia Cuccovillo, Federico Gobbi, Domenico D. Piscopo), che hanno lavorato con intelligenza sul corpo e sulla voce dando credibilità a una torbida storia di ordinaria follia nella opulenta civiltà del malessere. (antonio grieco)

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