La nonna seduta nel cerchio dell’assemblea si commuove durante l’intervento di Mirella, quando si rievoca il silenzio che accompagnò nel lontano ’99 prima il rogo, e poi lo spostamento delle comunità rom da via Zuccarini, nei dintorni della metro di Scampia, ai campi comunali sulla Circumvallazione tra Secondigliano e Melito. Quei campi, emblema delle politiche istituzionali in tema di abitare per i rom, sono ancora lì, dietro il carcere, sulla strada a scorrimento veloce, simbolo del ghetto istituzionale in cui i rom sopravvivono da due generazioni, un ghetto in cui parlare di inclusione e di welfare è non solo ipocrita, ma anche offensivo.
Una parte di quelle famiglie ha continuato da allora a vivere nei campi non autorizzati di via Cupa Perillo, al confine tra Scampia e Mugnano, zona attualmente molto “battuta” dai media, in seguito al rogo dello scorso 27 agosto che ha raso al suolo cinque baracche e costretto all’evacuazione sessanta persone. Oggi, 8 ottobre, quelle persone vivono ancora accampate nell’Auditorium di Scampia.
Lo scorso sabato, un corteo di almeno cinquecento persone è partito proprio da via Zuccarini, sotto la metro di Scampia, per provare a scrivere una nuova pagina in questa storia che sembra sempre uguale. Rom e non rom insieme, uniti nel portare messaggi semplici, forti e chiari: no al razzismo, sì a una esistenza dignitosa per tutte e tutti.
La manifestazione, gioiosa e affollata, ha visto gli attivisti scambiarsi il megafono con i giovani rom che stanno imparando a pretendere i propri diritti, che non vogliono essere sgomberati da un campo per finire in una tendopoli, che chiedono all’amministrazione chiarezza e trasparenza sui programmi che riguardano la vita di centinaia di persone. Si reclama il diritto di essere ascoltati, di ricevere un trattamento paritario a quello di qualsiasi altro cittadino.
Le bande di murga conducono il corteo, in una danza che attraversa la strada delle Vele e delle case nuove, il viale Ciccotti con l’entrata della caserma Boscariello, dove centinaia di rom dovrebbero essere “accolti”, non si sa come e non si sa quando. Qui il corteo si ferma un po’ più a lungo. I ragazzi si fanno immortalare con gli striscioni: “Comitato Abitare Cupa Perillo – Scampia” che ha il simbolo di due case, “Simmtuttfrat” e “Scampia antirazzista”, diretti esplicitamente a chi ha provato a fomentare l’odio tra i cittadini di Miano. Si passa poi per viale della Resistenza, si finisce nella piazza dei grandi eventi, sotto il colonnato in cui sono stati allestiti i giochi per le decine di bambini che hanno affrontato la camminata, chi a piedi chi nei carrozzini, con le mamme, le nonne, i padri, le sorelle.
Gli anziani del quartiere, in prima linea con il volto pacifico e determinato, sono quelli che hanno scavato, pazientemente e faticosamente, per trent’anni, questo solco profondo e fertile in cui tutti ci siamo inseriti, seminando cultura e civiltà, rendendo possibile la giornata di sabato. Anche grazie a loro, in un mondo sempre più diseguale e feroce, la gentilezza, il rispetto e la grazia ci hanno accompagnato e ci accompagneranno, gettando per qualche ora una luce un po’ magica ed emozionante. Un altro mondo, come qualcuno prova ancora a immaginare e a trasmettere, forse è davvero possibile? È risuonato come il solito dilemma ma anche, in fondo, come una speranza.
La manifestazione è il culmine di un percorso iniziato anni fa con le comunità rom di Scampia e la costituzione del Comitato Abitare Cupa Perillo. Il Comitato, composto da rom e italiani, con il supporto della rete territoriale, è riuscito a far arrivare la propria voce al resto della città, convogliando numerose realtà in una grande assemblea cittadina che il 20 settembre ha approvato un manifesto sotto il nome unitario di Assemblea Cittadina Antirazzista. L’assembla ha deciso di supportare i rom in questa lotta per la dignità, contro il razzismo, ma anche per avere risposte istituzionali chiare e precise.
In questo quadro, infatti, sono proprio l’anacronismo e l’irresponsabilità istituzionale a farci ripiombare con i piedi per terra.
Sono passati vent’anni dallo sgombero di via Zuccarini; le amministrazioni comunali sono cambiate, i rom sono parte del territorio, molti di loro sono cittadini italiani; la maggioranza è nata qui, e anche i più scettici tra gli interlocutori accettano ormai il fatto che non si tratti di “nomadi” – sebbene diversi giornali perseverino nell’errore –, ma di cittadini che da tempo provano a inserirsi nei circuiti scolastici, lavorativi, dei servizi pubblici, con la fatica di chi parte con molte penalizzazioni e un deficit di diritti umani.
Sta cambiando l’approccio dei rom alla vita politica della città, che sta diventando proattivo, con la partecipazione al dibattito che li riguarda, l’acquisizione di una consapevolezza e di linguaggi nuovi che vanno di pari passo con una maggiore sicurezza nel potersi esprimere, intraprendere azioni legali e arrivare per esempio alla Corte Europea, prendere la parola in contesti pubblici, dar voce ai propri bisogni e desideri, in un processo che sanno molto faticoso e senza garanzia di successo.
Sta cambiando l’approccio alla “questione rom” da parte di attivisti e movimenti cittadini: se fino a poco tempo fa l’argomento era relegato nell’ambito di un’opera umanitaria, con derive oscillanti tra assistenzialismo ed emergenza, oggi sembra essere passato il messaggio che la lotta dei rom per il diritto all’abitare e per una esistenza dignitosa è una battaglia politica, che va sostenuta e portata in primo piano nel dibattito cittadino.
Quello che non cambia, invece, sono le politiche abitative pubbliche per i rom. A Napoli, solo nel 2017, sono avvenuti due casi che mostrano quanto la realtà sia in contrasto con le retoriche istituzionali sul tema. Il primo è l’incendio e la conseguente gestione dell’“emergenza” per via Cupa Perillo a Scampia, un agglomerato dove vivono centinaia di persone per cui si richiede una soluzione a lungo termine, non ghettizzante e all’altezza della loro dignità. L’apertura di un tavolo di lavoro per la ricerca di soluzioni concordate con gli interessati, ispirandosi ai modelli più innovativi e non alle distorsioni del passato, è ancora lontanissima, mentre il comune fa fatica ad assumersi le proprie responsabilità nell’immaginare qualsiasi soluzione stabile e definitiva.
L’altro caso è quello riguardante lo sgombero di Gianturco, campo informale di via Brecce a Sant’Erasmo, che ha coinvolto mille e duecento rom romeni. Una parte di loro si è spostata autonomamente, disperdendosi in vari territori; un’altra parte, duecentocinquanta persone, ha deciso di rimanere nel quartiere dove ha consolidato con gli anni le proprie attività, e dove i bambini vanno regolarmente a scuola: hanno provato a occupare varie aree dismesse, da cui vengono puntualmente sgomberati. Il prossimo sgombero è previsto il 10 ottobre dall’ex mercato ortofrutticolo, il comune non ha alcuna soluzione da prospettare, e infatti non si pronuncia. La sorte peggiore però è toccata alle circa duecento persone che sono state rinchiuse in un nuovo campo comunale, il primo costruito dopo quello della Circumvallazione esterna, di fronte al cimitero di via Santa Maria del Riposo, con tanto di recinzioni e scritte razziste all’esterno, nell’area in cui anni fa già era stato appiccato il fuoco.
Nel 2017, con gli occhi di mezzo mondo puntati addosso, l’amministrazione comunale ha avuto il coraggio di allestire un nuovo campo e di difendere questa scelta con la solita retorica dell’emergenza e del buonismo più spietato. Appare fondato il timore che per le comunità di Cupa Perillo le prospettive non saranno adeguate alle aspettative, che cerchiamo comunque di mantenere alte per non cedere al ricatto di soluzioni al ribasso, che relegano le persone in condizioni di perenne e cronica subalternità. (emma ferulano)