La sera prima ci siamo lasciati con un ci vediamo alle nove fuori al campetto. Il campetto in questione è quello di “Rimessa laterale”, ossia il tentativo di rendere vivibile (o visibile?) un cantiere abbandonato da oltre vent’anni e divenuto col tempo discarica di rifiuti che vanno dal microscopico all’ingombrante, passando per le buste lanciate dai balconi e quelli speciali. Prima che i proprietari ci murassero tutti fuori con solide pietre di tufo, i ragazzi (destinatari primi nonché protagonisti dell’iniziativa) si sono spesi alacremente, con la loro irrefrenabile energia per ripulire e spianare il terreno. A rallentare il processo di trasformazione però, non è stata tanto la muraglia che impedisce fisicamente l’accesso al luogo, bensì una barriera meno fisica ma evidentemente più consolidata e dalle fondamenta ben radicate, quel tipo di opposizione, nevrotica e viscerale, che porta le mamme degli stessi ragazzini a urlarci contro che no, preferiamo l’amianto a questi bambini tutto il giorno sotto casa. Il fenomeno è noto e non fa che alimentare comportamenti a specchio da entrambe le parti, finendo con l’accecare tutti: più il gruppo dei ragazzi (sono gli stessi del cippo di Sant’Antonio) viene additato e (mal)contrastato in quanto para-criminale, più il loro comportamento tenderà a voler confermare quella tesi cementatagli addosso, in un circolo vizioso che a questo punto solo un soggetto esterno, se munito di pazienza e determinazione potrà, silenziosamente, provare a interrompere.
Questo a mo’ di premessa. Tanto per chiarire perché ci diamo appuntamento. È il 25 aprile, e, giusto a conferma che un luogo nato quadro può pure vivere tondo, alla Mostra d’Oltremare, luogo pensato per la propaganda coloniale fascista si festeggia la Liberazione, anche giocando a calcetto tra ragazzini di ogni rione.
Fatto sta che il primo che ho incrociato, ancor prima dell’orario concordato, già in pantaloncini e scarpe tacchettate, è stato Entony (il correttore automatico segna in rosso ma è così che lui va scrivendo il suo nome sui muri). Mentre io vado a prendere le magliette – stampate anche grazie al contributo di tutti quelli che hanno messo in piedi la giornata alla quale ci apprestiamo a partecipare – lui va a chiamare tutti gli altri: Ciro, Raffaele, Francesco e Gino, che abitano tutti nello stesso isolato, e poi, camminando camminando raggiungiamo l’altro Ciro.
Entony più che un bambino è un conflitto. Non tanto per quello che combina senza tregua da mattina a notte e ritorno, quanto per la guerra che deve portare dentro di sé e che lo vede protagonista assoluto contro quel mondo intero che a sua volta lavora instancabile per confermargli che lui deve farsi infame se vuole rientrare nella cornice di senso che da sempre l’inquadra. Fare un passo oltre la cornice sarebbe come un tuffo nel vuoto, la Melazzini ha scritto pagine dense su questo baratro. E noi? Come ci poniamo di fronte a questo salto? Forse non possiamo fare altro che accompagnare (Entony come tanti suoi coetanei), mano nella mano, verso un impatto che per quanto solo immaginato, nella testa e nel corpo di chi lo vive, deve risultare tremendamente deflagrante.
La giornata (per noi) è andata male, un po’ come ci si immaginava: prima sul campo (schiaffi e sputi tra compagni e sugli avversari), poi sulla via del ritorno (ancora tra loro). Farsi squadra (di calcio e non) non è cosa da niente, richiede tempo ma anche capacità che noi non sempre abbiamo. Cresciuti nello stesso habitat di violenza psicologica e materiale, linguistica alla lettera (ossia che dal profondo corpo si estende fino all’organo lingua ch’è muscolo e nervi) anche noi, purtroppo, non riusciamo a sottrarci completamente alla cornice. È vero, abbiamo leggermente sconfinato nel passepartout, intravediamo qualcosa, ma è come se fossimo sospesi sull’inclinazione dello smusso che ci separa dall’opera, senza riuscire ad andare né avanti né dietro. Siamo ancora sotto vetro e, ammettiamolo, incapaci. Scriverlo è mettere un cerotto minuscolo su una ferita enorme, ma è uno dei mo(n)di che ci consente di ragionare su quanto è difficile stare con l’altro, non opporre violenza a violenza, grida a grida, disagio a disagio. Ci rincuora forse solo sentirci in un processo che in quanto tale si evolve e al quale, anche se a tentoni, proviamo a dare una direzione, anche – anzi, soprattutto – se fosse un salto nel vuoto. (cyop&kaf)
Leave a Reply