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7 Novembre 2016

Quindicimila ettari di foresta. La città verde tra Napoli e provincia

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(archivio disegni napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)

da: horatiopost

L’eliporto è a Massaquano, in località Belvedere, su una piccola spianata  ai piedi del Faito. Ci arriviamo da Vico Equense, arrampicandoci per tornanti stretti, dopo la chiesa medievale del Battista, tra gli ultimi oliveti eroici a precipizio sulla Penisola. Un saluto rapido con l’equipaggio, il tempo di salire a bordo e infilare le cuffie, girano i rotori e siamo già in aria, per un volo di ricognizione sulle foreste dell’area metropolitana di Napoli. Sono in compagnia di Angelo Marciano, responsabile del Corpo Forestale di Napoli, e dei funzionari dell’unità “Foreste” della Regione, Marcello Murino e Luca Acunzo: per tutti loro è stata un’estate difficile, ed è il momento di fare un bilancio.

Sembra un paradosso, ma nelle pause della conurbazione più congestionata  d’Europa – lo spazio breve che va da Punta Campanella al lago Patria, coi suoi tre milioni di abitanti – si conservano miracolosamente, secondo i dati dell’Inventario forestale nazionale, oltre le aree agricole, quindicimila ettari di boschi e foreste, una superficie che è quasi una volta e mezza quella della città capoluogo: insomma, è come se accanto ai novantadue comuni della città metropolitana, ci fosse una vasta città verde, reticolare, ignota ai più, dove i volumi non sono quelli delle costruzioni, ma piuttosto le chiome di faggi, castagni e querce.

Dall’elicottero, queste macchie d’alberi incastrate nella conurbazione fanno impressione: le pinete e le leccete del Parco del Vesuvio sono come un mare verde che dal Gran Cono si infrange contro la città anulare, che assedia dal basso il vulcano. Passiamo l’area interessata dal grande incendio di Terzigno dello scorso agosto, quasi trecento ettari, vista dall’alto sembra la sfiammata di una saldatrice su un arazzo prezioso, con macchie che virano dal bruno al nero carbone, a seconda dell’intensità del fuoco.

Ora seguiamo il litorale: i tre castelli di Napoli e la maglia del centro storico sono uno spettacolo mozzafiato, poi subito, sulle colline dietro la città, inizia il mosaico delle foreste flegree. Dopo il bosco di Capodimonte (gli agronomi del re impiantarono la lecceta in pochi anni su aree di demolizione urbana, chissà perché mi torna in mente il deserto immobile di Bagnoli) sorvoliamo la collina dei Camaldoli: nonostante l’urbanizzazione sciatta del post-terremoto, la selva dei casali medievali si estende ancora per  cinquecento ettari, dall’Eremo giù fino a Chiaiano e a Marano, ma il versante meridionale che guarda Soccavo appare interamente denudato dall’incendio di fine agosto, che ha lambito le abitazioni, coprendo i quartieri collinari di una pioggia di cenere.

Pochi istanti e sorvoliamo l’ecosistema misterioso degli Astroni, dove le fasce vegetazionali si dispongono al contrario, a causa dell’inversione termica, con il leccio in alto e il bosco di farnia al fondo del cratere, sulle sponde del laghetto dove rare specie di uccelli nidificano. Poi, in rapida successione verso ovest, incontriamo i boschi del Monte Nuovo, del Gauro maestoso,  fino alla foresta di Cuma, sulle dune sabbiose della costa, ciò che rimane dell’antica Silva Galinaria raccontata da Strabone e da Maiuri nelle sue Passeggiate, che continuava fino al Circeo, plaga desolata di febbri e di predoni, un gioiello che solo il depuratore di Cuma ha preservato da ulteriori speculazioni.

Insomma, la perlustrazione di stamattina mostra come la foresta rimanga ancora, in questo terzo millennio, un elemento cardine dei grandi paesaggi della città metropolitana, Napoli compresa. Il risultato è che in un territorio estremamente ristretto, proprio accanto alla città, si conserva una biodiversità incredibile, con la sequenza pressoché completa di habitat e tipi forestali, dai boschi costieri mediterranei  fino alle faggete di vetta del Faito.

Restano da comprendere le funzioni e il valore di questo patrimonio, che fino alla metà del Novecento è stato fulcro di un’intera società e un’economia, soprattutto le selve di castagno, curate come giardini, che fornivano all’edilizia le travi per i solai, e all’agricoltura i pali per le pergole e i sostegni, garantendo ai possessori redditi elevatissimi,  e assorbendo per di più una quantità ingente di manodopera. Poi la lunga crisi, dovuta ai mutamenti delle tecniche costruttive, al declino dell’agricoltura tradizionale, al frazionamento ereditario della proprietà: la domanda di pali crollò, in questa nostra modernità improvvisata le antiche foreste conobbero l’abbandono, per capire cosa significa basta un giro nel Parco dei Camaldoli: nel ceduo non più coltivato, le ceppaie muoiono una a una,  e il bosco si spegne nell’abbraccio soffocante dell’edera.

La prospettiva andrebbe completamente capovolta. Con Angelo, Marcello e Luca riflettiamo sul fatto che per una grande città europea, quindicimila ettari di foresta dovrebbero rappresentare un’opportunità e una risorsa formidabile, una grande “infrastruttura verde” – secondo lo slogan suggestivo della nuova strategia comunitaria – per il riequilibrio ecologico, il mantenimento dei paesaggi, la qualità dell’aria, la vita all’aria aperta, il turismo e l’escursionismo, e non ultimo, l’intrappolamento di CO2 e la mitigazione del cambiamento climatico.

Insomma, in queste foreste metropolitane potremmo cercare il verde e gli standard di qualità urbana che ci mancano.  Ma anche le basi di una nuova economia, perché se resta assai comodo il pellegrinaggio veloce da Ikea,  reinvestire sui nostri boschi per una nuova filiera multifunzionale del legno, su basi moderne, pensando anche alle energie verdi, non sarebbe una cattiva idea. Importanti fondi internazionali lo stanno già facendo, con rendimenti realmente competitivi rispetto ad altre forme di investimento. Per di più non partiamo da zero, perché isole virtuose di gestione forestale sono ancora presenti, nonostante tutto, sui Lattari per esempio, dove il manto continuo dei cedui ci appare dall’alto in buona forma, con un ruolo importante delle cooperative giovanili, che lavorano all’ingegneria naturalistica e alla manutenzione delle pergole  tradizionali in Penisola e in Costiera.

Siamo a fine giro, l’elicottero si posa, la signora Angela che accudisce la piccola casupola dell’eliporto in cima al mondo ha già preparato il caffè e un vassoio di dolcini, li consumiamo con i piloti, ragazzi in gamba, vengono dal Trentino, lavorano d’inverno al soccorso alpino, mentre il nostro ragionamento sulle cose viste continua. Quello che è certo, ci diciamo, è che investire su queste foreste metropolitane è soprattutto una questione di sicurezza, perché hai voglia di sistemi antincendio per il pronto intervento e la repressione, l’unica prevenzione seria sta nella cura e nella gestione attiva del bosco, giorno dopo giorno, e magari in un rafforzamento di consapevolezza civica, altrimenti è tutto un rincorrersi sfiancante di emergenze, prima quella del fuoco, che torna a percorrere all’infinito gli stessi versanti; poi quella delle frane, gli smottamenti e le colate, che immancabilmente seguono, con le bombe d’acqua di questo nuovo impazzimento climatico, in una storia ricorrente di danni, lutti e pubblici dissesti.

Alla fine, come per altre cose che riguardano la nostra metropoli scombinata, è tutta una questione di responsabilità: per mantenere una foresta, come un centro storico, è necessario lavorare ogni giorno, gesti semplici ma necessari, come pulire una caditoia o sgombrare il sottobosco, con uno sguardo lungo sul futuro: la differenza tra benessere e precarietà, in fondo, è tutta qui. (antonio di gennaro)

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