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città
30 Gennaio 2024

A Licola, tra fantasmi del passato e macerie del presente

Sirya Micera
(disegno di simone quarta)

A Licola Mare aleggia ancora il ricordo del passato, di un tempo bello che fu e di un posto che non aveva nulla da invidiare ai grandi poli turistici della penisola. «Per chi l’ha potuta vivere, Licola negli anni Sessanta era un paradiso – dice Biagio, ormai ex residente –. Mi sembra ovvio però che non siamo più in quegli anni…».

Un ragazzo, che chiameremo Diego, mi ha detto invece: «In Africa si sta meglio». Diego ha diciassette anni, i capelli ricci e un filo di barba. Le giornate le passa sempre da queste parti e quando sente parlare della Licola del passato digrigna i denti: «A me questo non è mai sembrato un posto da ricchi…».

La decadenza di Licola è iniziata con l’occupazione dei terremotati ed è proseguita con la crisi del bradisismo. A seguito del sisma del 1980, infatti, la grande maggioranza degli sfollati di Pozzuoli fu dirottata proprio qui, rendendo inservibile ai fini turistici la località. Il paese, però, non fu attrezzato per ospitare una quantità così importante di persone. Ancora oggi qui manca la segnaletica stradale, molti impianti fognari non sono terminati, la manutenzione delle strade è assente e l’evasione scolastica diffusa. Eppure erano in tanti quelli che d’estate affittavano case bellissime. Licola era un posto per politici, calciatori, avvocati. Venivano da Roma, Milano, Torino. Oggi non restano che macerie.

In uno slargo malmesso, intorno a palazzi mangiucchiati, agonizza un edificio che sembra sopravvissuto alla guerra. La facciata è ricoperta da mattonelle blu, mentre la zona inferiore è squarciata e ci ficcano dentro di tutto come se fosse una discarica. «Quello è l’ex Lido Blu – mi spiega la signora Doriana, in pigiama mentre fuma una sigaretta –. Che munnezza che è diventato! E pensare che tanto tempo fa ci portavo i bambini a fare il bagno».

Licola è conficcata tra Giugliano e Pozzuoli ed è diventata una zona di non appartenenza. «Noi volevamo dare dignità a questa terra – racconta Biagio –, così tra il ’72 e il ’73, insieme al parroco, don Mario, iniziammo una lotta contro le istituzioni affinché Licola diventasse un comune a parte. I problemi principali erano sempre gli stessi – scuola, luci, fogne; volevamo Licola viva anche in inverno, non solo d’estate».

Mentre passeggio con Diego mi dice invece che i ragazzi della sua età non lottano più; che non hanno mai lottato. Si sono abituati ormai e poi in fondo non possono rimpiangere un tempo che non hanno vissuto. Ci spostiamo nella zona di Licola Borgo, qui il rumore del mare non si sente. Quando era bambino, Diego passava insieme al papà interi pomeriggi sulla spiaggia. «Ci  piaceva guardare i cavalli allenarsi sulla riva», dice. Poi mi racconta dell’acqua sporca, della sabbia scura e delle raccomandazioni della mamma. Il mare di Licola è stato quasi sempre non balneabile.

Da Licola Borgo si diramano due lunghe strade di cemento: il lato sinistro è popolato da case, villini e palazzi oscurati da un grosso magazzino cinese, il lato destro sembra invece meno abitato. Ci avviciniamo a una rotonda, qui molte macchine chiudono i finestrini: c’è un odore pestilenziale. Diego con un cenno della testa mi indica un grosso cancello. «Lì stanno i depuratori, l’aria è irrespirabile». In quello spiazzo, in cui molti africani sostano in attesa di una chiamata, alcuni cittadini hanno appeso un lenzuolo: “Ci avete rotto i polmoni!”, hanno scritto con la pittura rossa. Ora però le canne che circondano la zona sono diventate molto alte e il lenzuolo inizia a vedersi solo un po’.

Arriviamo in un grande slargo, di fronte alla pompa di benzina; qui le canne sono dappertutto e le scuole, le poste e la chiesa ne sono circondati. Alcune persone provano a prelevare dal bancomat ma la cassa è sempre vuota e aspettano invano. Al di sopra della posta ci sono varie abitazioni; i muri sono rotti, i balconi arrugginiti. Di fronte c’è un edificio con le mura colorate, fuori al cancello sosta un’anziana con due cani in un carrozzino. Tutti la conoscono, non ha casa, non ne vuole una; dice che il figlio l’ha truffata e che per le strade di Licola sta vivendo la sua miglior vita. Superata la scuola, continuando per quella strada, c’è la stazione, una delle tappe della Circumflegrea. Poco più avanti una piccola tabaccheria. Diego mi dice che di notte questo è l’unico luogo illuminato della zona. «Licola a volte mi sembra il Far west – aggiunge ridendo – e non solo per i cavalli che trottano». Da qualche anno, infatti, la località è sempre al centro di notizie sconfortanti, basti pensare allo scandalo del maneggio abusivo e degli animali maltrattati, delle zone di spaccio, delle persone gambizzate e delle fogne rotte che circondano la zona.

Al perché questa solare terra sia sprofondata così, prova a rispondere Biagio: «Quando una cosa non è tua l’abbandoni, e Licola non è di nessuno, nemmeno di chi ci abita». Qui non c’è una vera comunità, ognuno rimane chiuso in sé stesso, chi lavora a Napoli utilizza il borgo come dormitorio, mentre chi è venuto da Pozzuoli ci è rimasto impigliato dentro e non è mai uscito.

Continuando per quella strada si può arrivare a vedere il mare, mi dice Diego, ma ora è buio e aggiunge che è meglio non addentrarsi. Qui non ci viene quasi più nessuno, a meno che non si conosca il posto o si voglia godere di un mare abbastanza tranquillo e isolato. «I tramonti belli ci sono anche qua – mormora Diego facendo attenzione ad attraversare –. E poi questo mare, se lo senti e basta, può sembrarti pure le Bahamas». Si volta, abbassa lo sguardo e con le mani in tasca mi accompagna a casa. (sirya micera – laboratorio di narrazione)

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