C’è un rumore perenne lungo il percorso che conduce al villaggio di Doel. Un rumore simile a quello di una turbina, anzi milioni di turbine che sembrano provenire da sotto terra, e che aumentano d’intensità fino a irrompere tra i polder attorno a uno dei porti più performanti d’Europa. Come il respiro di una forza immutevole. La luce mattutina riflette sull’asfalto bagnato del ring, più che una cintura stradale un labirinto congestionato due volte su tre che circoscrive il fiume Schelda da una sponda all’altra. Se lungo la riva destra può capitare di ritrovarsi di fronte a pareti di container, al di qua invece prevale una fitta vegetazione costellata da ciminiere, piste ciclabili e mezzi pesanti. L’ansa del fiume, separata da spazi parcellizzati e depositi di stoccaggio, non si percepisce da quest’arteria stradale. A nord corrono i confini tra Olanda e Belgio che attraversano entrambe le rive e il mare dista cento chilometri, lungo la linea del nord che parte da Le Havre e arriva ad Amburgo passando per Anversa e Rotterdam.
Sono nella regione dei porti anseatici, quelli tra i più efficienti al mondo. I sindacati meglio organizzati, i portuali più qualificati, le imprese più internazionalizzate. Gettando uno sguardo ai porti della linea del nord emerge che la maggior parte dei terminal container sono gestiti da multinazionali che cooperano con le maggiori compagnie marittime. In altre parole, i clienti sono al contempo azionisti di chi gli fornisce il servizio, compagnie che controllano l’intera catena della fornitura globale dai loro quartier generali. A detta delle istituzioni europee tutto questo non produce distorsione della competizione. Ciò che conta sono i volumi su cui si fonda l’industria globale del container. Contano i milioni di TEU, Twenty-foot Equivalent Units. E i porti e i terminal che hanno spazi e capacità sufficienti per movimentarli. E le infrastrutture che ne possono garantire il flusso senza soluzione di continuità. Se non si capisce questo non si capiscono i progetti megalomani che minacciano l’esistenza di territori come quello di Doel e dintorni, municipalità di Beveren, provincia fiamminga, lungo la sponda sinistra del porto di Anversa.
Gli stormi sorvolano il villaggio. Il silenzio accentua i passi sui ciottoli lungo l’argine. La macchina ha lasciato dietro di sé una strada animata dalle vacche tra i campi, ma la vera strada che porta al villaggio è quel ring contraddistinto da una serie di segnaletiche numerate che indicano l’accesso ai varchi. Nelle vicinanze di una rotonda c’è una scritta in rosso: Geen Doel zonder haven (“No Doel senza porto”). Qualcuno ha aggiunto: + frituur (“Più patate fritte”). Il villaggio è appena oltre e il fiume gli scorre di fronte. Il rumore vorticoso delle turbine sembra provenire da sott’acqua adesso.
C’è rimasto un bar che fornisce il pranzo ai lavoratori della centrale, poi la chiesa e il cimitero appena sotto il rialzamento di protezione dal terminal 1742 Deurganchdok. Il resto è saccheggio, nonostante una segnaletica all’ingresso del villaggio ricordi che lì c’è ancora gente che vive, e che gli atti di vandalismo saranno perseguiti. Ci sono graffiti ovunque sulle facciate delle case, a differenza del centro di Anversa privo di una qualsiasi scritta d’odio o d’amore sui muri. Qua e là un’abitazione è rimasta intatta. Si aggirano per le stradine bambini con madri che li fotografano tra le case sbarrate da compensati e assi di legno inchiodate, edifici bassi a tetti spioventi coi mattoni rossi e le finestre rotte. Una coppia di anziani porta a spasso il cane. C’è un piccolo monumento ai marinai, delle giostre e un porticciolo lungo il fiume. La Margarita della MSC lo solca lentamente mentre una chiatta avanza in direzione del canale. Il turbinio non scema e insieme agli uccelli accompagna il passaggio di un’altra nave con la prua rivolta verso la foce. Una va e l’altra viene, come un nastro trasportatore che parte dal Far East, arriva in Europa e poi torna indietro.
Quella che vedo di fronte è una banchina in concessione a una multinazionale di Singapore e una di Dubai. La parte ovest del terminal ha una capacità di oltre sette milioni di TEU. La parte est poco meno di due milioni. In totale nove mlioni di TEU operati da oltre quarantuno gru a collo d’oca. Al lato opposto del terminal un antico mulino e alle spalle del mulino le due torri di raffreddamento della centrale nucleare. Il villaggio sta in mezzo, intorno a un’area grande quanto tremila campi di calcio. La sua sparizione dalla mappa risale alla metà degli anni Sessanta e coinvolge anche i millecinquecento ettari di polder circostanti, ma quando tutto è iniziato Daniel ancora doveva nascere. La sua famiglia si è trasferita a Doel da Anversa nella primavera del 1990, e già da prima si vociferava sui piani di espansione del porto. Ripetevano che Doel e il resto dell’area sarebbero scomparse. Poi cambiarono idea. Nel frattempo alcuni abitanti andarono via, la centrale nucleare aggiunse insicurezza all’insicurezza, mentre quelli ripetevano che un villaggio tra una centrale nucleare e un terminal container non sarebbe durato. In più, nel lungo periodo sostenevano che avrebbero costruito un’altra banchina ancora. Il progetto esisteva già allora. A quel punto Doel sarebbe stata rimossa dalla mappa, non c’era alcun dubbio, sostenevano. Alla fine un signore decise di costituire un comitato d’azione legale insieme agli abitanti contro di loro, chiamato Doel 2020. Era il 1998.
«Loro chi?»
«Il governo fiammingo e la commissione portuale – dice Daniel –, che hanno l’autorità sulla costruzione delle infrastrutture pubbliche nel porto. Hanno buttato milioni di euro per progetti falliti. Loro sono stati i nemici degli abitanti, loro e l’autorità portuale di Anversa, che ha sempre avuto grande influenza sul governo fiammingo. E dietro l’autorità portuale ci sono i terminal operator come quelli di Singapore e Dubai. E dietro ancora ci sono le compagnie marittime come MSC».
Il contenzioso legale iniziato da Doel 2020 sottolineava come il progetto di costruzione del terminal di Deurganchdok riguardasse un’area protetta da vincolo ambientale, ma il completamento dei lavori fu reso possibile da un decreto speciale del governo locale. Tuttavia gli abitanti vinsero e si arrivò a un accordo. Doel poteva restare nonostante Deurganchdok e il governo doveva assicurare l’area abitativa. Allo stesso tempo, le autorità locali andarono avanti con i piani di esproprio, esercitando pressioni sugli abitanti per farli andare via e alimentando le divisioni interne. Il novantacinque per cento dei proprietari vendette le case tra il 2000 e il 2003, ma c’era anche chi voleva restare, come la famiglia di Daniel, che decise di non vendere perché non era giusto, perché Doel doveva restare là dov’era per principio. C’erano undici proprietari che ancora avevano le case, ma la maggior parte vendeva e se ne andava, svuotando il villaggio a poco a poco.
Il governo locale rifiutava di rendere vivibile il villaggio e lasciava deteriorare gli edifici ignorando la sentenza. Poi iniziarono le occupazioni, tra il 2004 e il 2006. Arrivarono a ondate. Prima gli emarginati, poi gruppi di artisti che iniziarono a riempire di murales le facciate delle case, a sottolineare come la loro demolizione avrebbe provocato la distruzione di opere d’arte. Poi venne gente in lista d’attesa delle case popolari. Poi vennero quelli che avevano sentito parlare di un posto semi-abbandonato con acqua ed elettricità gratis nelle abitazioni. A quel punto la municipalità intervenne sgomberando sia gli occupanti che gli affittuari. Gli abitanti di Doel si opposero alla rimozione degli affittuari e alla demolizione dell’intero villaggio, che in precedenza era stato dichiarato vivibile sul piano regolatore. L’autorità portuale di Anversa, nel frattempo, iniziò a demolire le case di cui era proprietaria alimentando le tensioni. Nell’area circostante la gente veniva espropriata due volte, per la realizzazione di un’area naturale di compensazione al terminal Deurganchdok e per la costruzione stessa del terminal. Gli stormi erano trattati meglio dei civili dal governo locale, dice Daniel. Un giorno erano circondati dalla polizia, seduti sui tetti delle case per opporsi alle demolizioni, ma quando la polizia si accorse che sui tetti c’erano i nidi delle rondini fece marcia indietro. Un terzo del villaggio era ormai stato demolito, finchè non vinsero l’ennesimo processo fermando l’azione dell’autorità portuale.
Verso la fine degli anni Novanta meno di mille persone vivevano a Doel. Nel 2009 erano in trenta. E quando le autorità lasciarono che le case vuote si deteriorassero cominciarono gli atti di vandalismo. Girava voce che Doel fosse un villaggio fantasma: «All’inizio noi stessi di notte cercavamo di controllare, chiamavamo la polizia ma era frustrante, la municipalità se ne fregava, veniva gente a rubare fili di rame, materiali edili, ad appiccare il fuoco e a rompere le finestre. Iniziammo a fare la guardia, chiudevamo l’ingresso del villaggio nel week-end e di notte, fermavamo chiunque volesse entrare, tenevamo fuori la gente che non apparteneva al villaggio. Avevamo vinto i processi ma alla fine Doel è diventato quello che volevano diventasse. Hanno lasciato che tutto venisse devastato perché il proprietario delle case è il porto, e il porto deve espandersi, e la devastazione del villaggio legittima le demolizioni dal momento che la gente non può più viverci. In questo modo si sono sbarazzati di noi e del villaggio».
Dice Daniel che nel 2015 il governo fiammingo ha tirato fuori il progetto di Saeftingdok, il terminal concepito laddove Doel giace in stato di abbandono. Il villaggio lascerà il posto ai volumi necessari per non intasare il terminal di Deurganchdok. Invece dei nove milioni si arriverà a una capacità di trenta milioni, ogni secondo un container lascerà il porto, giorno e notte. Quanto alla centrale di Doel, avrebbero dovuto spegnere i reattori ma continuavano a posticipare la data.
Gli abitanti di Doel, dopo anni di pressioni, espropri, demolizioni e battaglie legali, nonostante il tentativo di far sopravvivere il villaggio, alla fine hanno dovuto vendere quelle case da cui si possono quasi toccare le gru a collo d’oca del terminal di Deurganchdok, a pochi metri dalle reti metalliche che sbarrano l’accesso alla banchina. Mi ritrovo a camminare fin dove è lecito lungo la cresta dell’argine, verso le reti e i cartelli che ordinano di non valicare l’area. Davanti alla rete guardo una gru che carica e scarica container tra un tonfo e l’altro intervallato dalle sirene. L’acqua del fiume sbatte sulla riva ancora più forte a causa dei frangenti provocati dalle navi in transito. Adesso il gracchiare degli uccelli e il turbinio costante si associano ai suoni del ciclo di carico e scarico, alle sirene delle straddle carrier che si aggirano per il piazzale pieno di container impilati, che prendono, alzano, spostano, muovono. Dalla nave al ciglio della banchina. Dal ciglio della banchina al piazzale. Dal piazzale alla lunga coda di autoarticolati in fila al varco. E poi ancora oltre, nell’hinterland, da cui la merce proviene e verso cui la merce è diretta. (andrea bottalico)