«Affittare oggi casa a Bagnoli è un vero affare, ancora di più comprarla, credimi». Era questa la frase preferita dalla schiera di agenti immobiliari che ho incontrato negli ultimi mesi, under trenta di solito alla prima occupazione, giacca lucida o tailleur e cartellina con il logo dell’agenzia. Nessuno di loro, devo dirlo, mi ha mai mentito spudoratamente: la convenienza nell’andare a vivere in zona ovest, infatti, in particolare a Bagnoli, in questo periodo c’è. E non è neanche vero che la colpa è della crisi, che ha mandato giù i prezzi del mattone, perché nel rapporto qualità-prezzo le case di Bagnoli escono senza dubbio vincenti nel raffronto con gli altri quartieri. Una casa di media grandezza (ottanta metri quadri e due stanze da letto), per esempio, a Bagnoli costa tra i 250 e i 300 mila euro, mentre al Vomero (via Belvedere e via Caldieri) per la stessa casa se ne pagano tra 350 e 600 mila. Stesso discorso per il centro storico, dove novanta metri quadri in piazza San Domenico costano quasi 700 mila euro. I prezzi sono inferiori anche a quelli di Fuorigrotta, e (anche se di poco) a quelli della zona Museo-Sanità. Nonostante la maschera da giovane yuppie, però, nemmeno in questo magico mondo di finzione acquistare casa è operazione alla mia portata. Di conseguenza, volente o nolente, devo interessarmi degli affitti.
Poco male, in realtà, dal momento che i giovani delle agenzie immobiliari flegree si buttano a pesce su questo genere di affari, e nel giro di un mese le case di via Acate, via Enea, via Cicerone e via Giusso, non hanno più segreti per me. Uno degli agenti, Stefano, mi spiega che il trucco è considerare il prezzo per metro quadro. Le case di via Acate e via Enea, per esempio, vanno in media a sette/otto euro ognuno. Implacabile il confronto con il centro (nove euro ai Quartieri; undici a piazza Carità; dodici a Monteoliveto; ventuno a via Roma) e ancor più con le strade della Napoli-bene: a via Manzoni un metro quadro costa diciotto euro, a via Tasso venti, a Posillipo venticinque. Insomma, abitare a Bagnoli, oggi, non costa molto, anzi. E questo nonostante fino a qualche anno fa le case fossero costosissime, nonostante ci sia il mare, il panorama, e, come mi ha detto qualche giorno fa un vecchio operaio, “il sole più caldo della città”. È vero, d’altro canto, che c’è anche la colmata avvelenata, l’ex banchina finalizzata allo stoccaggio dei materiali industriali dell’Italsider, gingillo in cui sono state rilevate percentuali altissime di sostanze cancerogene, e su cui un’amministrazione lungimirante come quella de Magistris aveva pensato di mandare in scena la coppa America di vela. Per la rimozione della colmata (è il caso di dirlo) la situazione è ancora in alto mare, ma non è solo questo, ad aver fatto scendere i prezzi.
«A voler fare un calcolo meramente economico – racconta Gabriella –, io sono arrivata a Bagnoli nel momento peggiore, tra il 1998 e la metà del primo decennio del 2000». In quegli anni i prezzi delle case nel quartiere erano alle stelle, aspettando una riqualificazione che non è mai avvenuta. Già a metà degli anni Novanta, dopo gli annunci di Bassolino, che proclamò la sua intenzione di rendere Bagnoli il nuovo Eden napoletano – tra parchi, zone turistiche, attività produttive, culturali e così via – i prezzi delle case avevano registrato un’impennata clamorosa. In un contesto di stasi nel resto della città, e in generale di tutta Italia, quelli di Bagnoli erano cresciuti prepotentemente fino al 2003-2004, arrivando anche a 4000/4500 euro al metro quadro.
Gabriella e il suo compagno Roberto, lei lavoratrice all’università con contratto a progetto, lui grafico a Caserta, arrivarono a Bagnoli nemmeno quarantenni, riuscendo a comprare una casa anche piuttosto grande (90 mq), grazie a una combinazione. «Il proprietario doveva vendere in fretta, e così, unendo i soldi dei genitori e raccogliendo i nostri risparmi, siamo riusciti a comprarla a un prezzo inferiore rispetto a quello che il mercato dell’epoca richiedeva». La casa in questione si trova poco distante dal mare, in piazzetta Bagnoli, di fronte all’istituto alberghiero Rossini, a suo tempo sede dell’albergo Tricarico, quello dove De Filippo aveva ambientato la commedia Uomo e galantuomo.
Il proprietario della casa di Gabriella era un ex operaio in pensione, e l’appartamento aveva le caratteristiche comuni all’intero parco abitativo del quartiere: costruzioni di buon livello, fatte per ospitare quelli che per quasi un secolo erano stati gli operai dell’Italsider. «La casa era in ottime condizioni. Abbiamo modificato le porte con il vetro al centro, che erano un po’ antiquate, e sostituito il marmo per terra con il parquet. E poi il riscaldamento, dato che nessuna delle case storiche del quartiere ha l’impianto, così come i palazzi, per la maggior parte bassi, non hanno l’ascensore».
Gabriella e Roberto rappresentano il prototipo dei “nuovi bagnolesi”, arrivati nel quartiere tra la fine dei Novanta e l’inizio del Duemila. Anche se su questa cosa ci si gioca parecchio, da queste parti: Gabriella, infatti, partecipa all’Assise di Bagnoli, un coordinamento di cittadini attivissimo nel quartiere, e più o meno dal 2004 è sempre in prima linea. Per gli altri dell’Assise, però, con cui ha ormai un rapporto di amicizia vero, Gabriella sarà in qualche modo sempre macchiata da un piccolo peccato originale, quello di non essere nata a Bagnoli. «In questa cosa si vede molto il senso di appartenenza al quartiere che sentono i “compagni” – sorride –, che oggi chiamano anche me così, nonostante io non abbia mai avuto la tessera nemmeno del WWF. È una cosa bella, e dà l’idea di quale fosse davvero la comunità bagnolese, una comunità chiusa su se stessa nel senso più nobile, anche morfologicamente, tra il mare e la collina di Posillipo».
Meglio di chi il quartiere lo ha vissuto da sempre, il senso di comunità che si respira a Bagnoli non può raccontarlo nessuno. Aldo, per esempio, ex operaio dell’acciaieria, che oggi abita al centro storico, ma che a Bagnoli ha vissuto da quando aveva cinque anni. «Prima, a dire il vero, ad Agnano, nelle case popolari. Poi a piazzetta Giusso, con la mia famiglia, e ancora aLa Pietra, e a via nuova Bagnoli. È stato fuori al balcone di quella casa, da studente, mentre preparavo l’esame di maturità e guardavo la fabbrica di fronte a me, che ho deciso che il mio sogno era lavorare lì. Tutto quello mi affascinava dal punto di vista politico, anche quando ero bambino, negli anni Cinquanta, quando gli operai occupavano la fabbrica e io andavo a chiedere a mia madre cosa fosse quel fiume di gente».
Aldo racconta come nel quartiere, fino alla dismissione della fabbrica e poco oltre, si “sentisse odore di operaio”. «La fabbrica non era semplicemente il posto di lavoro, la fabbrica assorbiva le persone, le univa, faceva commettere anche meno sbagli. Il lavoro c’entra, nel senso che quando la fabbrica ha chiuso, il lavoro è finito, e la gente che da anni ci abitava, è stata costretta ad andare via da Bagnoli». Chiunque abbia vissuto a Bagnoli prima e dopo la fabbrica, racconta come la chiusura abbia influito tantissimo sulle trasformazioni del quartiere. Trasformazioni che in realtà sono state molto poco urbanistiche e invece molto sociali.
«Fino agli anni Novanta – raccontano Paolo e Pietro – Bagnoli aveva un suo equilibrio sociale: il capofamiglia era l’operaio di tipo fordista, con un salario da operaio, ma in fondo discreto, anche perché c’erano gli straordinari, insomma non ce la si passava così male. I prezzi erano misurati e questo faceva sì che la gente potesse avere un tenore di vita relativamente buono. Ciclicamente quello che chiamavamo ’o cantiere continuava ad assorbire, tra fabbrica e indotto, i figli di operai che non volevano studiare. Gli altri venivano mandati a scuola, e provavano a salire almeno un gradino della scala sociale, candidandosi come membri della classe impiegatizia rimasta invece sempre più a spasso nel corso degli anni».
Per quanto riguarda le abitazioni, la maggior parte erano state riscattate dalle famiglie operaie, che avevano messo da parte qualcosa dal proprio stipendio. Chi era rimasto in fitto, aveva potuto comunque andare avanti con prezzi abbastanza bassi, almeno prima dell’introduzione dell’equo-canone. «Quello che rendeva la vita meno cara – continua Paolo –, era anche una sorta di solidarietà sociale, che negli anni della fabbrica aveva coinvolto diverse generazioni. A Bagnoli, tanto per dirne una, non esisteva chiamare l’elettricista, quello che ti faceva l’impianto, l’idraulico, il falegname: chi sapeva fare questo lavoro, gente della fabbrica, lo faceva. Io chiamavo Tizio, e la spesa che contrattavamo era solo per i pezzi da comprare. Non c’era la manodopera perché poi Tizio a sua volta avrebbe chiesto una mano a Caio per fare un altro servizio».
In questo senso, la disgregazione della comunità di cui parlava Aldo, e con lui tanti altri, è indissolubilmente legata alla chiusura della fabbrica. Dopo l’ultima colata, nel 1989, è cominciata la crisi, che ha avuto una ripercussione praticamente immediata. Il figlio dell’operaio, infatti, non ha più trovato uno sbocco che per decenni era parso naturale a tutti gli abitanti del quartiere. Ha cominciato a pesare sui salari e sulle pensioni dei genitori, e allora anche l’economia solidale è diventata economia reale: molti ex operai sono diventati artigiani, hanno cominciato a vendere quello che prima “regalavano”, e il costo della vita è cominciato a salire. «Ma il guaio – continua Pietro – è stato quando è passata la convinzione che Bagnoli, non essendoci più la fabbrica, non era più un quartiere operaio, e che la gente doveva andare via. Sono cominciate le chiacchiere sullo sviluppo del quartiere, che poi si è limitato a Città della scienza, con le sue assunzioni tutte politiche, e poco altro. E dalla metà degli anni Ottanta alla fine dei Novanta, i prezzi delle case sono progressivamente saliti, così una nuova popolazione ha sostituito gli abitanti storici del quartiere».
Tecnicamente, è il fenomeno della gentrification, il cambiamento sociale di una zona di città (di solito i centri storici) derivante dall’acquisto di immobili da parte di una fascia di ceto più elevato rispetto a quella originaria. A Bagnoli tutto ciò ha preso forma nella vendita delle case da parte di una classe operaia che le aveva a suo tempo riscattate, ma che all’improvviso non riusciva più a vivere nel quartiere, avendo dei figli a carico, spesso senza lavoro, e dovendo fare i conti con un costo della vita diverso. Anche quelli che trovavano lavoro, tra i figli degli operai, finivano poi per spostarsi in provincia. Famiglie che a Bagnoli ci abitavano da sempre, o che erano arrivate con la fabbrica, hanno venduto a prezzi molto buoni, e con i soldi che hanno guadagnato si sono spostate a Giugliano, Monteruscello, Villaricca, comprando case che nascevano grazie alle cooperative, quindi a basso costo. Hanno avuto, così, anche la possibilità di mettere da parte qualcosa, o investire per i figli per provare a vivere in maniera più “sicura”. Tutto questo, in realtà, sarebbe potuto avvenire anche prima, ma non avveniva dal momento che il bisogno primario degli operai era quello di stare vicino alla fabbrica: tolta quella, è cominciata la diaspora.
«È un posto – racconta Pietro – che prima o poi dovrebbe (anche se ancora non è chiaro quando) diventare un quartiere residenziale, dove d’inverno ci sono giornate calde e soleggiate, e d’estate si sta più freschi che nel resto della città. Già oggi ci sono negozi, supermercati, servizi, infrastrutture che ti permettono di arrivare al centro in un quarto d’ora. Insomma, il quartiere che ricordava l’Inghilterra dell’Ottocento, quello dove quando stendevi i panni li trovavi neri per colpa delle polveri, non c’è già più». Alla fine degli anni Novanta, d’altronde, l’estimo catastale aveva equiparato Bagnoli a Posillipo.
Emblematiche, da questo punto di vista, sono situazioni come quelle degli appartamenti Ina Casa. Costruzioni che cinquant’anni fa erano considerate fuori mano, perché, si diceva, “stanno nella campagna»”, mentre oggi i prezzi di appartamenti come quelli in via Boezio, sono decisamente alti. A cambiare, però, non sono stati solo gli abitanti. Sono nati i supermercati, ci sono tantissimi bar, che sono sorti per provare a far nascere una sorta di movida bagnolese (sono arrivati i “marchi” del campo, da Fuorigrotta, con il Blasius e il San Domingo che hanno fiutato l’affare). E poi tantissime agenzie immobiliari, mentre fino a trent’anni fa le case di Bagnoli le fittavano i vecchi sensali, e i portieri dei palazzi.
A via Cupa Capano, però, portieri non ce ne sono. La strada non è nulla più che un grosso vicolo, ma un vicolo che collega via di Pozzuoli con piazzetta Bagnoli. Per chi non conoscesse la zona, il mare, le scuole del quartiere ela Cumana. Bussandoal civico numero 1, la signora Alfano spiega che lì, nella sua scala, le famiglie sono tutte proprietarie da anni. Anzi l’età media è molto alta, tanto che il pomeriggio ci si tiene compagnia l’uno con l’altro. La palazzina in questione è conciata piuttosto male: non ci sono luci sui pianerottoli, non c’è l’ascensore e in generale l’atmosfera è quella da casa popolare.
Un’altra signora, incuriosita dai miei movimenti, racconta di essere un’abitante storica della strada. In realtà, da qualche mese non abita più a Bagnoli, ma ad Arco Felice: «Mi faccio accompagnare qui una volta alla settimana, per salutare le amiche. La verità è che laggiù mi sento un po’ isolata». La signora ha scelto di trasferirsi perché il figlio ha comprato una villetta a schiera, più o meno ai confini con Pozzuoli, e ha preferito portare con sé la madre, ormai anziana (anche se dall’aspetto vivace), per non lasciarla sola. «Però la casa l’ha venduta, e non so nemmeno a quanto», mi sussurra. Quello che è certo è che alla signora dispiace non vivere più qui. Il marito era operaio all’Italsider, ma è morto ormai da tempo. «Chiacchierando con la mia vecchia vicina di casa – mi risponde – ho saputo che i nuovi proprietari non ci hanno messo niente a fittarla, e l’hanno fittata pure bene. Io pagavo trecento euro, mentre il nuovo inquilino, che se ho capito bene è un ragazzo giovane, ne paga quattro e cinquanta».
Il caso della signora, è piuttosto comune nel quartiere. Degli storici abitanti di Bagnoli restano essenzialmente quelli che non avevano figli, o ne avevano uno, che nel frattempo si è trasferito altrove. Il ricambio, così, è totale. Anche a Coroglio avviene qualcosa di simile: se da un lato il piano regolatore dice che prima o poi lì si dovrà abbattere tutto, è anche vero che personaggi importanti della città acquistano in zona. Tra questi c’è anche qualcuno che ha messo gli occhi sull’ex area industriale e che lì vuole costruire. «Questo però – raccontano gli abitanti del quartiere – è il genere di investitore che preferisce temporeggiare, come avviene d’altronde per l’altra questione spinosa che riguarda Bagnoli e l’edilizia residenziale, ovvero le case che andranno costruite negli appositi lotti dell’ex area industriale. Finora le aste per assegnare i terreni (di proprietà demaniale) sono andate deserte. Il fatto è che l’acquirente, una volta aggiudicatosi il lotto, dovrà provvedere di tasca propria alla bonifica, dal momento che BagnoliFutura ha dichiarato che le proprie competenze sull’area si esaurivano in una bonifica per destinare l’area a nuova zona industriale, ben diversa rispetto a quella (molto più costosa) di un’area destinata a edilizia residenziale. A questo punto, considerando le condizioni economiche non eccelse della partecipata del comune, è lecito pensare che gli investitori (a cui quei terreni fanno gola, dal momento che potrebbero essere la base per l’edificazione di un lussuoso quartiere residenziale, praticamente sul mare) stiano aspettando alla finestra il decesso di BagnoliFutura, già indebitata con vari istituti di credito per centinaia di milioni di euro, per poter così trattare direttamente con le banche le transazioni».
Il processo di cambiamento del quartiere insomma, forsennato per una quindicina d’anni, sembra procedere, anche a causa della crisi, in maniera un po’ diversa. «Oggi c’è un’eterogeneità che rende il tessuto sociale indefinito, tra i pochi anziani rimasti, l’alta borghesia che ha acquistato sperando di ritrovarsi in un quartiere di lusso, e quella media spesso in fitto: professori, fotografi, professionisti», chiude Gabriella. Per molti lo stop è stato segnato dalla fine delle illusioni sul rilancio, per altri dal temporeggiamento degli investitori, in attesa di una nuova rivoluzione.
«Il tasso di disoccupazione, tra chi è veramente del quartiere, è altissimo – racconta Aldo con voce amara –. Questo non è più il quartiere di quando da ragazzino passavamo le giornate intere sul litorale, sullo scoglione, a La pietra; non è più il quartiere che si emozionava alle tre meno un quarto tutti i giorni, quando sentiva la sirena della fabbrica; e non è più il quartiere che usciva dall’Italsider e si riuniva alla sezione del Pci, sentendosi a casa». Forse era inevitabile, o forse si è sbagliato qualcosa. «Fatto sta che la sfida era trasferire tutto quel patrimonio di ricchezza sociale, e culturale, su un altro terreno. Che fosse l’industria sostenibile, l’artigianato, il turismo, o qualsiasi cosa. Invece ci hanno cambiato, e ci hanno resi una razza in via di estinzione. Così che quando noi non ci saremo più non resterà niente di quello che è stato». (riccardo rosa)
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