Il governatore De Luca ha più volte dichiarato che la sanità è un settore prioritario per la sua azione di governo, lanciando proclami su questioni gravose come l’affollamento dei Pronto Soccorso e le barelle nei corridoi. Nell’ultimo anno la giunta regionale ha imposto un’accelerazione ad alcuni processi in fase di stallo, come la nomina dei direttori generali e l’apertura definitiva dell’Ospedale del Mare, ma sono ancora numerosi i punti critici della sanità regionale.
Il Programma nazionale di valutazione degli esiti (PNE) analizza gli interventi sanitari effettuati da ospedali pubblici e privati ed è curato dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), un ente pubblico istituito nel 1993 che svolge funzione di supporto tecnico-operativo alle politiche sanitarie di stato e regioni. Tra le attività dell’AGENAS, il Programma Esiti riveste un ruolo centrale proponendosi di verificare che determinate procedure siano recepite e messe in atto e che le performance delle strutture ospedaliere siano il più possibile uniformi, perché il traumatizzato di Palermo venga assistito come quello di Aosta e lo stesso parto avvenga in modalità sovrapponibili a Torino e a Crotone.
Avviato nel 2010, il PNE si propone di valutare, annualmente, l’efficacia “teorica” (efficacy) e quella “operativa” (effectiveness) degli interventi sanitari. Vengono utilizzati indicatori desunti dall’analisi della letteratura scientifica, cresciuti dai quarantadue iniziali ai centocinquantotto attuali, che analizzano prestazioni sanitarie rilevanti per numero, costi e impatto sociale. La strategia è quella di individuare punti critici di ingente peso economico e organizzativo e uniformarne l’erogazione a standard di qualità e appropriatezza. Ottenere prestazioni, cioè, erogate al paziente giusto, al momento giusto, nella quantità giusta e al livello organizzativo ottimale.
Un esempio utile a comprendere è la voce “fratture del femore” che, in relazione all’aumento della durata media della vita e della mobilità stradale, costituiscono una fetta importante delle urgenze trattate in un Pronto Soccorso. Le linee guida e la letteratura scientifica indicano come obiettivo prioritario l’esecuzione dell’intervento chirurgico entro quarantotto ore dalla frattura. La tempestività dell’intervento, infatti, riduce l’insorgenza di complicanze a breve e lungo termine, soprattutto nei pazienti al di sopra dei sessantacinque anni. La valutazione delle strutture sanitarie viene fatta basandosi su dati come questo o su urgenze altrettanto impegnative come l’infarto cardiaco o l’ictus cerebrale.
Dall’analisi dei dati nazionali è possibile rilevare un generale “miglioramento” nelle performance delle strutture ospedaliere, con alcuni dati importanti come la riduzione del numero di tagli cesarei, vera piaga della sanità italiana, la riduzione delle giornate di degenza per alcuni interventi di chirurgia non d’urgenza, come l’asportazione della colecisti, e l’aumento costante del numero di fratture del femore trattate entro le quarantotto ore. Prime della classe Toscana, Marche ed Emilia Romagna, come ci si poteva aspettare; note positive vengono dalla Sicilia mentre la Campania si conferma agli ultimi posti in Italia.
Per fornire un quadro più esaustivo, in quest’ultima edizione il PNE presenta un nuovo modello valutativo con il quale ciascuna struttura può essere esaminata, oltre che per i risultati ottenuti per ciascun indicatore, anche sulla base di un’analisi sintetica suddivisa per area clinica: una rappresentazione grafica (Treemap) di ogni singolo ospedale illustra la qualità delle prestazioni erogate su sette aree cliniche: cardiocircolatorio, nervoso, respiratorio, chirurgia generale, chirurgia oncologica, gravidanza e parto. È il rosso, in questi grafici, a segnalare la mancata aderenza di un ospedale agli standard di qualità, in una scala cromatica che assegna il verde scuro alle strutture che sono riuscite a ottenere un livello di aderenza agli standard qualitativi “molto alto”, il verde chiaro un’aderenza “alta”, il giallo per la sufficienza, l’arancio per un’aderenza bassa. I grafici mostrano chiaramente che la Campania è un grande “buco rosso” dentro cui gli ospedali non riescono, nonostante gli sforzi delle professionalità impiegate e la presenza di numerosi punti di eccellenza medica e chirurgica, a raggiungere risultati nemmeno sufficienti.
Il Cardarelli di Napoli rimedia il cartellino rosso per l’area della patologia osteomuscolare, quella del respiratorio, del nervoso e la ginecologia, con una valutazione bassa per la chirurgia generale e la sufficienza raggiunta dall’area del cardiocircolatorio. Unica eccellenza l’area della chirurgia oncologica. Altri ospedali cittadini di consolidata tradizione come il San Giovanni Bosco, il Loreto Mare, l’Ascalesi, il San Paolo e l’ospedale dei Pellegrini, non riescono a raggiungere standard elevati in nessuna disciplina. Ma il rosso è il colore di moltissimi altri reparti degli ospedali campani, anche centri con personale di elevato livello tecnico. Note positive il Monaldi, “rimandato” in cardiologia e chirurgia oncologica ma promosso a pieni voti in chirurgia generale e area pneumologica; promosse anche l’area di patologia del sistema nervoso del Policlinico Federico II e la chirurgia oncologica del Pascale. Nella Napoli2, che comprende un’area che va dai Campi Flegrei all’hinterland a nord di Napoli, la valutazione è negativa in sedici reparti sui ventotto esaminati, mentre nella Napoli3 la situazione non è migliore.
Se a Napoli la situazione appare difficile, gli altri ospedali della regione mostrano uno scenario pressoché omogeneo di valutazioni negative come il Moscati di Avellino, con una valutazione alta solo per la chirurgia oncologica che però rappresenta una percentuale di attività dell’ospedale non determinante (sette per cento). E non bastano le note positive di ospedali pur importanti come il Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta per quanto riguarda l’area ginecologica, in Campania mediamente disastrosa, e le malattie dell’apparato nervoso.
Il tutto è aggravato, se possibile, dalla classifica annuale stilata dal ministero della salute circa l’erogazione dei LEA, i “livelli essenziali di assistenza”, cioè il numero di prestazioni ritenute irrinunciabili e che devono essere erogate in maniera uniforme sul territorio nazionale. Anche su questo fronte, i dati relativi al 2015 e ai primi mesi del 2016 sono sconfortanti, con la Campania ultima a novantanove punti, molto indietro rispetto ai centotrentanove ottenuti appena due anni fa. Sono le cifre di una sanità che stretta dentro la morsa dei commissariamenti e dissanguata dal Piano di Rientro ristagna ormai da un decennio in un limbo, asfissiata dal dogma del pareggio di bilancio. Dato ancor più paradossale se si osserva, invece, la crescita complessiva del finanziamento statale al sistema sanitario, costante negli ultimi anni, e una serie di processi lenti e frammentari ma effettivi, di adeguamento agli standard di appropriatezza ed efficacia.
Il PNE non produce classifiche, graduatorie, pagelle. Pur senza dare giudizi qualitativi, la lettura dei dati fornisce indicazioni su quanto i nostri ospedali siano in grado di combinare qualità dell’offerta e razionalità nell’uso delle risorse. A conti fatti, possiamo dire di avere strutture in grado di fornire prestazioni di elevata qualità ma carenti dal punto di vista organizzativo. I dati negativi sono il frutto di un’inefficienza “di sistema”. Gli indicatori del PNE, infatti, tengono conto del risultato al netto delle problematiche strutturali degli ospedali (gravi carenze di organico, ingenti tagli alla spesa, ritardi nell’adeguamento degli ospedali agli standard richiesti da una sanità moderna, cattivo funzionamento delle strutture territoriali). Sono, quindi, risultati negativi figli di una situazione in cui lavorare è molto difficile e pertanto non possono essere marchi d’infamia delle strutture e dei relativi operatori del settore ma ricadono direttamente sugli organi di governo.
Ancora più sconfortante quello che viene fuori comparando i dati regionali con quelli nazionali, che registrano un grande divario tra la sanità del nord e quella del sud. Dai dati rilevati sui 1371 ospedali italiani si osserva una crescita complessiva dei risultati su indicatori strategici come il numero di tagli cesarei effettuati o i tempi di intervento in caso di frattura del femore, in calo in entrambi i casi. Lombardia, Valle d’Aosta e Friuli sono tra le regioni in cui si registrano i più elevati standard di qualità, seguite dalla Toscana, mentre tra quelle a più bassa qualità ci sono l’Abruzzo, il Molise e la Campania insieme alle altre regioni meridionali.
Questi cattivi risultati presentano un ulteriore problema se si considera che il decreto sui piani di rientro sancisce che quelle strutture che presentino una o più aree cliniche nella classe molto bassa di valutazione (rossa), corrispondenti al quindici per cento dell’attività dell’ospedale, o che ricadano nella valutazione arancione per un’attività pari al trentatre per cento del totale, dovrebbero presentare un Piano di efficientamento e riqualificazione, attraverso il quale saranno tenuti sotto controllo con cadenza trimestrale. Tra questi sicuramente il Cardarelli, il Policlinico, il Moscati di Avellino, il Monaldi.
La Regione, quindi, si trova di fronte una sfida che in questa situazione finanziaria appare impossibile e richiede l’avvio di un dibattito quanto più esteso possibile sui dogmi dell’austerity che finora ha impedito qualsiasi ipotesi di riorganizzazione del sistema sanitario campano. Il deficit non può essere il perno intorno a cui ruotano le politiche sociali e sanitarie poiché fonda l’azione di governo sulla domanda, inaccettabile, “riusciremo a trovare i fondi necessari per curare tutti?” Molto più sensato ripartire dall’affermazione, non a caso posta a fondamento della Costituzione, “noi dobbiamo curare tutti”. Semplice, ma estremamente complicato nella situazione attuale. (antonio bove)
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