Dal n. 59 di Napoli Monitor
Bisogna risalire alla fine degli anni Cinquanta, e rifarsi al fenomeno sociale della scoperta delle vacanze al mare, che allora investì un po’ tutte le coste italiane. Il benessere, dovuto al boom economico, diede la possibilità anche al ceto medio di aspirare alla vacanza. I terreni migliori, privati e demaniali, furono aggrediti e lottizzati. Fu un desiderio di massa che rapidamente portò anche a Castel Volturno migliaia di persone dalle province di Napoli e Caserta. Il nostro litorale era ancora vergine, con una immensa macchia mediterranea, la pineta, i vigneti, e una grande spiaggia. Allora, in una villetta senza pretese, era possibile passare l’intera estate, magari senza acqua ( ci si approvvigionava con la damigiana nel centro storico), ed anche senza luce ( si sopperiva col lume a gas, o con un piccolo gruppo elettrogeno). Insomma, c’era spirito di adattamento, e tutto questo poteva far sentire tutti un po’ pionieri. Ma poi, dall’iniziale voglia di mare, si passò al desiderio, o all’esigenza, di vivere nelle villette stabilmente, a prescindere dalla consapevole assenza di servizi e infrastrutture. Da Nord al Sud, furono le periferie delle metropoli, soprattutto, a determinare con il loro sovraffollamento, con i loro problemi sociali e abitativi, il destino delle nostre coste, disponibili a dismisura, per effetto degli scarsi controlli sull’abusivismo e senza alcuna pianificazione territoriale. E la zona incontaminata di una volta, cominciò a degradarsi, cambiò rapidamente volto, e tutto ciò che mancava agli insediamenti già agli inizi, divenne rapidamente disagio e rivendicazione: infrastrutture, servizi, scuola, sanità, trasporto pubblico.
Come iniziò tutto? Chi costruiva e chi comprava in quegli anni?
L’esplosione urbanistica ebbe un inarrestabile crescendo. Le imprese edili grandi e medie, hanno avuto un ruolo determinante nel sovvertimento delle condizioni ambientali. Il costruttore realizzava lottizzazioni per dieci, venti ville; poi dopo che le aveva facilmente vendute, altre venti, e così via. Successivamente, prese il sopravvento l’iniziativa autonoma del privato: del commerciante, del professore, del bidello, dell’impiegato comunale, che vedevano la possibilità di realizzare sul litorale, e ovunque volessero, l’abitazione che non potevano costruire in città. Anche a costo minimo. Era tutto, come dire, un flusso facile, un circolo che si era messo in moto, tra la richiesta e l’offerta. I proprietari dei terreni, non videro più altro destino che quello di vendere, a lotti, oppure a corpo, le loro proprietà contadine. In molti casi si trattava di terreno arenile, arido, salmastro, non sempre produttivo dal punto di vista agricolo. E quindi la gente era doppiamente desiderosa di disfarsene. Era un modo immediato di fare soldi. A questo voglia di vendere corrispondeva il desiderio di acquistare, e di acquistare ciecamente. I piccoli masti, chiamati in causa, ogni giorno era impegnati su tre o quattro villette che tenevano contemporaneamente in costruzione. E la gente, per risparmiare, rinviava a momenti successivi la realizzazione dei servizi, e quindi di migliori condizioni di vita. Tutti pensando all’intervento risolutore del Comune.
Il Villaggio Coppola Pinetamare, che i fratelli Coppola stavano realizzando in quegli anni nel comune di Castel Volturno su terreni in gran parte demaniali e senza le necessarie autorizzazioni, ha rappresentato un modello di riferimento per le trasformazioni avvenute in altre parti del territorio?
Sì, il Villaggio Coppola fu il primo insediamento di grandi dimensioni realizzato da grandi imprese. Il Villaggio era una città alternativa, che si proponeva come piacevole luogo per tante soluzioni residenziali e vacanziere, e anche come l’alternativa unica ai problemi di sviluppo dell’intero territorio.
All’inizio degli anni Settanta sei stato eletto sindaco di Castel Volturno. Durante la tua amministrazione sono stati elaborati diversi strumenti urbanistici, ma nessuno di questi è stato mai approvato in modo definitivo. Perché il comune non riusciva a essere protagonista della trasformazione che stava cambiando il volto del litorale?
No, no…Gli strumenti urbanistici, durante la mia gestione – solo cinque anni – furono approvati. In primo luogo il Perimetro urbano; in seguito passammo dalla redazione del Piano di fabbricazione a quella del Piano Regolatore. La regolamentazione del territorio risultò difficilissima, perché stavamo proprio nel boom della vendita dei lotti, che erano la materia prima che produceva ricchezza, che procurava soldi e faceva migliorare le condizioni di vita della gente. La precaria economia rurale degli anni precedenti, fu subito abbandonata perché non produttiva di reddito. Parlare di regolamentazione territoriale in quel contesto, e imporre un ordine che avrebbe potuto risultare addirittura più utile, era un discorso impossibile, che non passava, molto minoritario. Infatti la mia amministrazione, quella eletta negli anni Settanta, cadde dopo pochi mesi, proprio su questo. Ci furono diversi episodi di grande tensione, di violenza, e numerose dimissioni. Io fui destinatario di una sfiducia che letteralmente diceva: “per drastico atteggiamenti nei confronti di abusi edilizi”.
Cosa avvenne dopo la caduta della tua giunta?
Dopo lo scioglimento del 1971 – ero stato eletto nel mese di giugno del ‘1970 – fu nominato un commissario prefettizio – Giovanni Della Corte – che ebbe come unica preoccupazione quella di includere nel perimetro urbano l’intero territorio. Fu una pacchia, tanto che i tecnici, gli imprenditori e la gente amavano far passare il perimetro urbano per un piano urbanistico. Invece altro non era, nel Settanta, che la delimitazione dell’edilizia già realizzata, e quindi del centro storico più qualche agglomerato più consistente. Quando fummo rieletti nel ’71, provai a revocarlo, però non ebbi la maggioranza sufficiente per farlo, per cui non ci rimaneva altra prospettiva che quella di realizzare subito il piano regolatore. Nel 1976, alla scadenza del mandato, il PRG fu predisposto e fu approvato. Allora, come oggi, non era sufficiente l’approvazione del consiglio comunale, ma occorreva il visto della sezione urbanistica della Regione. Quando fu restituito con il prescritto visto, l’amministrazione demo-fascista che mi era subentrata, lo buttò letteralmente a fiume. Fu allora che ebbe inizio il balletto infinito degli strumenti urbanistici. Questo territorio, per gli appetiti incontrollati che si sono sempre manifestati da parte della malavita e della stessa gente, ingannata dal miraggio della corsa al facile arricchimento, non doveva avere un piano regolatore. Ma anche se l’avesse avuto, nessuno l’avrebbe mai rispettato, perché non c’era una volontà politica prevalente e un sistema istituzionale che potesse imporne il rispetto. L’ultima possibilità di raddrizzare le cose, è stato il mio ultimo travagliato PRG redatto negli anni Novanta. Il piano, approvato, per la seconda volta fu velocemente revocato dall’amministrazione di centrodestra che mi subentrò, con due righe: “Perché non risponde a nessuna delle esigenze dei cittadini e delle associazioni e categorie presenti sul territorio”. Chi l’aveva detto questo? Boh?! Era stato redatto dai migliori urbanisti dell’Università di Napoli. In questo modo, è continuato l’ulteriore consumo del territorio.
Secondo molti il degrado di questa zona è iniziato negli anni Ottanta quando molte case sono state requisite per dare ospitalità agli sfollati del terremoto e del bradisismo. Per la prima volta questi insediamenti turistici, abitati solo d’estate, sono diventati luoghi vissuti per tutto l’anno. Condividi questa interpretazione?
No, perché è una lettura molto superficiale, anche se ha avuto indiscutibili ripercussioni. I terremotati scappati da Napoli, e che sostavano nelle macchine lungo la Domiziana, venivano respinti dalla gente del litorale. Ricordo che la sezione del PCI, preoccupata che le cose potessero degenerare senza controllo, fece un manifesto dal titolo: “Questi napoletani brutti, sporchi e cattivi…”. E poi continuava, più o meno così: “Questi napoletani sono gli stessi ai quali voi avete venduto i lotti, ai quali avete costruito la villa…quelli che hanno portato a Castel Volturno quella che voi chiamate ricchezza. Embè, se è così, siete in debito con loro, perché hanno anche comprato nelle salumerie e nei caseifici, nei bar, sono andati al mare…Sono quelli che vi hanno consentito di rifarvi la casa, per voi e per i vostri figli…Non vi pare, ora, dopo il sisma, che gli dobbiamo esprimere solidarietà?” Dopo il manifesto ebbi la possibilità di far passare questo messaggio in una accesissima riunione con tutti i comuni del litorale. Durante l’incontro, intervenni con questa proposta: « Organizziamo la disponibilità, con chi ci sta…Ci sono tantissimi appartamenti vuoti, alberghi vuoti, case sfitte… Lo Stato pagherà tutte le spese… Tra l’altro, si tratta di pochi mesi…». Bisogna tener presente che negli anni Ottanta gli ospiti già cominciavano ad abbandonare le abitazioni e ad andare via. Proseguii dicendo: “Per chi ha la casa vuota, quale migliore occasione di questa? Non si avrà a che fare con inquilini morosi…Lo Stato paga…Responsabile e garante di tutto, sarà l’on. Zamberletti!” E la cosa passò, perché, in considerazione dell’affare, furono tutti disponibili. Il terremoto per molti fu proprio un affare, sia per i proprietari delle ville che degli alberghi, d’invero sempre vuoti. Poi parecchi non sono più rientrati nelle loro sedi. Perché? Perché a Napoli non avevano la casa, o avevano un basso fatiscente, e quindi trovavano opportuno rimanere a vivere sul litorale. Ma non erano stati loro a costruire le case. Le case già c’erano, e questo è un dato di fatto per il quale non si può attribuire ai terremotati la responsabilità dell’abusivismo, delle migliaia di costruzioni edificate a casaccio, del degrado urbanistico e territoriale. Non possiamo ritenerli responsabili dello sfruttamento del fiume Volturno, dell’inquinamento del mare e della mancanza di fognature. Non possiamo attribuire nemmeno agli extra-comunitari – perché il discorso vale anche per loro – colpe per l’assenza di numerosi servizi.
Cominciano ad arrivare sul litorale anche i primi immigrati di origine africana e gli insediamenti lungo la costa perdono definitivamente la loro vocazione turistica. Il loro arrivo è stato davvero il colpo di grazia per l’intero territorio di Castel Volturno?
Ne ho fatto cenno precedentemente. La città che abbiamo oggi – case infinite, migliaia di abitazioni – è stata costruita anche con l’aiuto degli extra-comunitari. All’inizio erano invisibili, lavoravano nei cantieri. Sono emersi quando anche l’edilizia abusiva si è bloccata, e hanno avuto la necessità di trovare un altro lavoro. Castel Volturno altro lavoro non ne poteva offrire. Ed è stato nell’interno, verso Villa Literno, Giugliano, Quarto, che hanno potuto trovare precarie risposte alle esigenze della minima sopravvivenza. E dove andare a dormire? Dove c’erano le case, naturalmente. All’inizio, abitare per loro è stato difficile, e si dovevano accontentare della marginalità. Poi, quando l’ingresso della malavita e la crisi generale hanno fatto scappare per sempre i primi vacanzieri (gli originari proprietari delle seconde case), è stato più facile trovare un’abitazione disponibile. Infatti, migliaia di appartamenti e di case, ancora oggi, stanno lì, vuote, lasciate a deperire. E c’è chi ha trovato negli extra-comunitari una risorsa per realizzare un reddito. Con il passare del tempo – questo oggi è lampante – la comunità africana ha acquisito più credito. Se si affitti agli extra-comunitari, è possibile che a fine mese paghino; se si affitta agli italiani, che siano emarginati dell’agro aversano o della provincia di Napoli, è possibile che solo pochi pagheranno. Viviamo, ormai, tra africani, gente dell’Est, e immigrati venuti da altri comuni dell’interno, in una realtà multietnica. Non ci resta che augurarci lo sviluppo di una società civile multiculturale, e di un sentimento comune dell’abitare e del vivere insieme.
Dunque i primi immigrati sono arrivati molto prima del terremoto?
Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, quando cominciò la costruzione del Villaggio Coppola. Sbarcavano sul nostro litorale importati direttamente dalla camorra. Questi avvenimenti allora non si conoscevano, e però avvenivano, non solo con la manovalanza degli extra-comunitari, per la verità, ma anche con quella del nostro hinterland. Arrivavano camion stipati di manovali provenienti da Casal di Principe, San Cipriano, Villa Literno… Gli operai edili venivano trasportati per pochi soldi sul litorale, al mattino presto, e poi riaccompagnati alla sera. Negli anni Settanta – fino a quando ho fatto ancora il sindaco – la CGIL i riuscì a sindacalizzare gli operai. All’interno dei cantieri vi furono varie rivendicazioni, e la presenza del sindacato riuscì, in qualche caso, anche a mitigare il conflitto tra la gente dei nostri paesi e gli extra-comunitari, che venivano pagati di meno e quindi determinavano anche una tariffa giornaliera più bassa.
Cosa cambia negli anni Ottanta?
È il periodo in cui, bloccata l’edilizia abusiva per saturazione del territorio, e anche della domanda, emersero dalla clandestinità gli extracomunitari invisibili. Non lavoravano più, non stavano nei cantieri che li avevano occultati, e vennero fuori per necessità. La loro presenza non fu più tollerata. La cronaca di quegli anni racconta di scontri per lo spaccio della droga, di omicidi che avvennero sulla consortile di Destra Volturno. Allora furono ammazzati – non ricordo se nell’84 o nell’85 – cinque o sei extracomunitari. In effetti lo spaccio fu un’ulteriore risposta alla crisi dell’edilizia. Castel Volturno era diventata una piazza internazionale dello spaccio di droga. E veniva arruolato chi stava a spasso: l’extracomunitario. Sono stato testimone di quegli anni, ed ho raccontato in un libro i conflitti che esplodevano all’interno di Pinetamare, quando la malavita puntava al controllo della Darsena perché era un luogo di arrivo della polvere bianca. Ma lì, già prima della droga c’era il contrabbando del tabacco, e nel primo dopoguerra quello della benzina. Sempre lì, sempre in quel posto mediano del territorio. All’epoca era difficile parlare di regole, di piano regolatore, come pure di ordine pubblico. servizi pubblici, che in modo molto precario, ma costoso, venivano forniti dalla camorra. Un ordine c’era, ed era quello dell’antistato, al quale la gente spesso ha aderito – come dire? – anche con discutibile partecipazione, accettandone prestazioni e servizi, di cui era diventata l’unica dispensatrice ( acqua potabile in botti, espurgo pozzi neri, manutenzioni, trasporto, materiale di ogni sorta). Qualche risultato l’abbiamo raggiunto, ed oggi, è molto meglio… Se così si può dire. (salvatore porcaro)