Nel settembre 2012, per celebrare la cinquantesima uscita di Napoli Monitor, abbiamo preparato un “numero speciale” chiedendo a redattori e collaboratori del giornale di scrivere dei racconti sulla loro generazione, e ad altrettanti disegnatori di illustrarli a tutta pagina. Ne sono venuti fuori otto pezzi autobiografici – in un arco anagrafico che va dai venti ai quarant’anni – che pubblicheremo nel corso di questo mese di luglio, a distanza di quasi due anni dalla loro scrittura.
Era una mattina del settembre 2005, quando ebbi il mio primo contatto diretto con un pezzo di quello che qui chiamano spesso, con un’espressione dai confini mobili e incerti, il movimento. Una studentessa bussò alla porta della classe, chiedendo all’insegnante di far uscire due rappresentanti. Non avevamo ancora eletto nessuno, ma la professoressa di lettere, profetica, mi mandò fuori come rappresentante provvisoria. La ragazza mi appioppò un pacco di volantini. «Tutta la classe li deve riempire, poi io passo a riprendermeli». Era una cosa per tutti gli studenti, per tutelare i loro diritti, niente a che fare con la politica, disse, per rassicurarmi. Invece, era proprio quello che speravo di trovare al liceo, la politica. Forse per qualche suggestione cinematografica, arrivando al ginnasio mi ero preparata a unirmi a un covo di studenti belli e rivoluzionari, costantemente assediati da orde di spietati fascisti e professori reazionari da contestare. Avevo trovato, invece, una classe quasi tutta di ragazze dall’aspetto irrimediabilmente normale, che venivano da comuni della provincia di cui ignoravo l’esistenza. Si trattava di moduli di adesione all’Uds, il sindacato studentesco all’epoca legato alla Cgil. Restarono nel mio zaino per qualche settimana, prima di essere riciclati come liste della spesa.
Durante la nostra prima occupazione, Francesco Caruso venne a parlare con gli studenti. Del suo intervento, ricordo solo che, alle osservazioni di un ragazzo particolarmente scettico sulle manifestazioni contro il G8, rispose che in realtà i black bloc erano i poliziotti stessi. Tornai a casa abbastanza soddisfatta da quella spiegazione, e per parecchio tempo confinai black bloc e poliziotti nella mia lista mentale dei cattivi, dalla quale escludevo poliziotti onesti e black bloc particolarmente giovani e/o disperati. Tre anni più tardi, avevo imparato che il nemico, più che i fascisti, di cui nella mia scuola si vedevano esemplari totalmente innocui e piuttosto rari, erano gli Uds: “servi dei servi”, come diceva una scritta in un bagno. I disobbedienti, loro sì, erano tosti.
A ridisegnare i miei schemi, arrivò quella che molti ricordano come l’Onda. Nel 2008 ero stata già rappresentante di classe e d’istituto, prendendo la cosa molto sul serio, e ne avevo abbastanza. La mia carica sarebbe scaduta a novembre, dopodiché mi sarei ritirata dalla politica scolastica.
Non avevo fatto i conti con il nuovo ministro, Mariastella Gelmini. Il 23 settembre 2008, Giuseppe e io convocammo la prima di molte assemblee, firmando la convocazione come “studenti napoletani”. Giuseppe frequentava già un centro sociale, e ne sapeva molto più di me di politica e movimenti. Quando ci incontrammo, mi mostrò, trionfante, una macchiolina di sangue sul casco, souvenir degli scontri per la discarica di Chiaiano. Non dissi niente, ma lo lasciai fuori dalla lista dei cattivi. Per quanto non particolarmente giovane (non più di me), e niente affatto disperato, mi stava simpatico. Fissammo un appuntamento per telefono, per definire gli argomenti e i tempi dell’assemblea. Quando gli chiesi come riconoscerlo, mi rispose: «Eh, tengo l’SH metallizzata, tengo l’orecchino, sono… come ti devo spiegà… un poco tamarro». «Ok, perfetto».
Convocammo una manifestazione per il 3 ottobre. A scuola avevamo scritto il volantino, contattato altre scuole, avvisato i giornali e fatto tutto quello che negli anni precedenti era toccato ad altri, più grandi. Il camioncino con l’amplificazione, invece, l’aveva portato il centro sociale Insurgencia, lasciandoci in omaggio anche qualche speaker più navigato di noi. Dormii poco per l’ansia, ma, con mio grande sollievo, al corteo c’era un bel po’ di gente, tutti studenti medi, o quasi. A deludermi, però, furono gli interventi che arrivarono dal camioncino. Avevamo studiato la riforma Gelmini, spiegandola ai compagni di scuola con enfasi drammatica e dovizia di particolari, e sembrava invece, che il corteo fosse soprattutto contro la polizia e la discarica di Chiaiano. Pur senza discutere sulla legittimità della protesta a Chiaiano, i lunghi interventi dei grandi, così diversi da quelli che ci aspettavamo a una manifestazione per la scuola pubblica, ci lasciarono un po’ contrariati. Me e qualcuno del mio collettivo, non tutti. D’altra parte noi del Liceo Vittorio Emanuele eravamo tonti, come sapevano bene al Genovesi (e viceversa).
Poco tempo dopo, tutte le scuole del centro storico erano in agitazione, ciascuna a modo suo. Il Pansini, che aveva il preside di sinistra, aveva ottenuto immediatamente un’autogestione, con la scuola aperta fino a tardi per tutti, mentre al Genovesi avevano occupato, dopo diversi e avventurosi tentativi, ma senza concedere nulla a preside, professori e personale A.T.A. Fotocopiatrici comprese, per la gioia di chi aveva adornato l’atrio con alcune sue parti del corpo in formato A4, b/n. Da noi al Vittorio Emanuele avevamo occupato per modo di dire, chiavi in mano e d’accordo con il preside, dopo diverse giornate di assemblee.
Al Casanova, i ragazzi che si impegnavano sul serio erano un paio, Rosario e Caterina, eppure riuscirono a mantenere l’occupazione per almeno una settimana. Organizzarono una street parade, il giorno di Halloween. La manifestazione consisteva nell’andare in giro travestiti da mostri, e lo slogan che la lanciava, ottimista, era “cchiù black ‘ra midnight nun po’ vvenì”. I tagli ai laboratori, più che i licei, colpivano soprattutto istituti come il loro, che forma artigiani e odontotecnici.
Al Fonseca, invece, sembrava che si facesse molto sul serio. Con l’aiuto dei precari, si erano istituiti corsi autogestiti in varie materie, per permettere a chi voleva di non restare indietro. La curiosità mi spinse a entrare, una sera, per salutare degli amici, ma soprattutto sincerarmi del fatto che, oltre a studiare matematica, giocassero anche a calcio nei corridoi. Così era, per fortuna. Al momento di uscire, rimasi bloccata nell’ingresso. I ragazzi non poterono aprire fino a quando quelli del “sistema” di Santa Chiara non si furono annoiati di bussare violentemente e tirare oggetti vari contro la porta e le finestre. Tutte le scuole del centro storico dovevano vedersela con i ragazzi di Santa Chiara. Noi non avemmo problemi, non fecero che strapparci qualche striscione e metterci un po’ di paura, ma non entrarono. Il Fonseca ebbe tremila euro di danni, se la memoria non m’inganna, pagati poi dai genitori degli alunni.
Con l’inizio delle occupazioni universitarie, smettemmo di riunirci al laboratorio occupato Ska, e ci spostammo nell’aula occupata Flex, gestita da un collettivo abbastanza variegato ma sostanzialmente di ispirazione post-strutturalista e post-operaista, come capii solo molto dopo. Le assemblee pubbliche generali, invece, si tenevano in Aula Magna, sempre nello stesso edificio. Là confluivano un po’ tutti i collettivi, chiunque poteva intervenire, si parlava tanto, c’era un sacco di gente. Per le questioni organizzative, cioè per decidere le cose, ci si spostava nelle aule occupate. Una volta, ingenuamente, proposi a una ragazza che non conoscevo di scrivere un volantino nell’aula Flex. Mi rispose di no, che era meglio in R5. Per me faceva lo stesso, era l’aula di fronte. Ma più tardi, scoprii che in R5 bisognava dire “mobilitazione” al posto di “Onda”, “corteo” al posto di “street parade” e non mi ricordo cos’altro. Le loro restrizioni sul linguaggio non mi convincevano, e pensai che il volantino degli studenti medi, per come l’avevo in mente io, non fosse compatibile con il loro. La mia proposta di farne uno a parte fu liquidata bruscamente, così sfogai il nervosismo, com’è mia abitudine, con puntigliose osservazioni sull’ortografia altrui. La ragazza che era al computer si infuriò e la lasciai fare.
Non ero la sola, tuttavia, ad accumulare una certa insofferenza verso collettivi universitari, partitini dichiarati e non, centri sociali, sindacati di vario genere. Come me, molti studenti alla loro prima esperienza politica non sopportavano che si cercasse di mettere un cappello sul nostro movimento. Non conoscevamo le infinite (e infinitesimali) differenze ideologiche e politiche che dividevano i più grandi, né ci interessavano. Noi eravamo la massa ai cortei, ci dicemmo, e le riunioni le avremmo fatte per conto nostro, fuori dall’università.
Preparammo una serata di sensibilizzazione sulla riforma, il programma era molto ricco. Avevamo contatti con i giornali, i nostri amici conoscevano i programmi di grafica; i Cobas, ignari delle nostre ambizioni secessioniste, ci mettevano a disposizione la fotocopiatrice; alcuni di noi suonavano, conoscevamo a memoria interi passi della legge 133 e del D.d.L. Aprea. Le mamme cucinavano instancabilmente per la causa. Ci mancava solo una sede, ci vedevamo nelle case. Per il resto ci sentivamo invincibili.
Il maltempo ci costrinse a rimandare una mezza dozzina di volte l’iniziativa fino a quando, esasperati, decidemmo di provare a farla lo stesso, sfidando il meteo. La grandine si abbatté sugli amplificatori con inaudita violenza, vanificando il lavoro di un mese e lasciandoci con qualche centinaio di euro di debiti, che colmammo a colpi di pranzi sociali, donazioni e contributi familiari. Accettammo la sconfitta.
Dopo un anno d’immobilismo, gli studenti si ritrovarono ad affrontare nuovi tagli all’istruzione. Ero appena arrivata all’Orientale e accolsi con favore l’occupazione di Palazzo Giusso. Meno numeroso ma più determinato rispetto a quello del 2008, il movimento del 2010 chiacchierava e occupava di meno, ma manifestava e bloccava di più. Strade, binari, teatri, cinema, musei. Dovunque passassimo, gettavamo scompiglio. La conoscenza ossessiva delle leggi non interessava più a nessuno. Fossero discariche, scuole, repressione o sol dell’avvenire, o anche tutto questo insieme, ognuno aveva un buon motivo per stare in piazza, e questo bastava. Chi non aveva mai fatto politica si teneva piuttosto a distanza, ma il casino riusciva lo stesso, anzi meglio, senza troppi “indecisi tra i piedi”, parafrasando una canzone di quell’anno dei redivivi 99 Posse.
Buona parte della protesta fu gestita dai collettivi comunisti. Non è che si chiamassero proprio collettivi comunisti, ma sono comunque tifosi di Cuba alle Olimpiadi, e usano l’appellativo “compagno” con disinvoltura. Pur non condividendo la loro impostazione, non misi in discussione la loro superiorità in termini di esperienza e capacità organizzative. Guardai con benevola sufficienza al nuovo gruppetto indipendente, nato dopo un’occupazione di Castel dell’Ovo. Mi dissi che la grandine avrebbe spazzato via anche loro, e infatti così fu.
Il megafono diventava nuovamente monopolio di un gruppo di duri e puri dalla parlantina allenata, complici la pigrizia e la timidezza degli altri. In una delle tante assemblee intervenne una studentessa fuori-sede, criticando la retorica degli slogan e il linguaggio pesantemente ideologico. Piovvero su di lei insinuazioni di ogni genere, addirittura velate accuse di neofascismo. Nessuno ebbe il coraggio di riprendere il suo intervento. Neanche io dissi niente, ma quando si presentò l’occasione di occupare uno spazio insieme ai ragazzi dell’aula Flex, non ci pensai due volte. Il loro linguaggio, per quanto largamente incomprensibile, mi sembrava almeno più fantasioso.
Nella polverosa e dimenticata ex mensa dell’Orientale nacque così lo Zer081. Oggi lo spazio è sotto minaccia di sgombero. In compenso, il collettivo che lo anima si è reso protagonista di quattro nuove occupazioni. Non so dire per quanto tempo partecipai alle loro assemblee e iniziative. Un mese, forse, ma mai con particolare assiduità. La cosa più gratificante fu dipingere maschere di carnevale con i bambini che abitavano nella zona tra Santa Chiara e Banchi Nuovi. A parte questo, partecipavamo a tante iniziative, in uno spirito allegramente ribelle e talvolta spudoratamente sconclusionato. Tuttavia, quando sentii i miei compagni cantare “Ruby libera” e “Se non cambierà bunga bunga pure qua” al sobrio corteo della Fiom, a Pomigliano, mi sentii fuori luogo dietro il loro striscione.
Gli slogan sono molto diversi, da uno spezzone all’altro dei cortei, a Napoli come ovunque. Una frase sola, mi resi conto, era pronunciata sempre uguale, con la medesima intonazione, forte e monocorde, da qualsiasi megafono, in ogni corteo: «Dietro lo striscione!» L’Uds, lo Zer081, il Cau, Rifondazione, i precari Bros, i Carc, e la lista è ancora lunga. Mi dissi che uno striscione, anche il più bello, non serve che a dividere un corteo a pezzi. Qualche settimana dopo, conobbi la redazione di questo giornale. Finalmente avevo un buon motivo per fare quello che, in fondo, avevo sempre desiderato. Iniziai a scorrazzare avanti e indietro tra gli spezzoni dei cortei, registratore e taccuino alla mano. Non mi sono ancora stancata. (giulia beat filpi)
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