Anno del signore 2016. Lunedì 21 novembre. Teatro di Corte di Palazzo Reale. Ciro Longobardi anima l’ottavo appuntamento della stagione concertistica 2016/17 messa a punto da Tommaso Rossi, neo direttore artistico dell’associazione Alessandro Scarlatti. Una di quelle date da segnare sul calendario.
Umiltà e attenzione fanno di Longobardi un raffinato interprete del linguaggio musicale moderno e contemporaneo. Non si contano premi e riconoscimenti raccolti durante la sua attività di pianista e concertista; le numerose incisioni discografiche, tutte per etichette importanti nel panorama musicale contemporaneo, da die Schachtel a Stradivarius. Docente presso il conservatorio Giuseppe Martucci di Salerno, non di rado viaggia in giro per il mondo impegnato in master class. Mi affascina il suo sviluppo come pianista modernista avvenuto da autodidatta. Uno dei pochi in giro che provo a inseguire a ogni sua esecuzione in città. Ma andiamo al concerto.
Arriviamo sull’ultimo clap dell’applauso di rito che accompagna l’ingresso del pianista sul palco. Un piano a coda nero, uno Steinway & sons, è posizionato al centro, contornato da sculture in forma di libri, reduci dalla recente manifestazione “Terre da sfogliare”, tenutasi proprio a Palazzo Reale; due di essi diffondono colori davvero psichedelici; e sono una botta di luce nella sala lasciata in penombra.
La platea è colma al settanta per cento e il colpo d’occhio offerto è davvero ragguardevole: quale contesto migliore per un recital pianistico di questa portata. Un plauso sincero agli organizzatori, di quelli che semmai non possono nemmeno goderselo, il concerto, per la perfetta messa a punto della macchina organizzativa. Soprattutto quanto a correttezza negli orari.
Esegue il libro primo dei Preludi di Claude Debussy. La poetica del flusso esecutivo fa della performance un arco sempre teso verso la perfezione nel fraseggio: scorrono uno dietro l’altro dodici pezzi, la metà dell’opera in questione. L’integrale avrebbe meritato un concerto a parte. Un uomo seduto in sestultima fila segue sui propri spartiti l’esecuzione del musicista, la cui delicatezza è pari alla determinazione nell’articolazione delle frasi musicali. Esegue tutto a memoria. Un lungo applauso accompagna il silenzio che mette fine a questa prima esecuzione. Giusto il tempo di asciugarsi un po’ di sudore, recuperare gli spartiti e attacca con Erik Satie.
Sports et divertissements è un ciclo di ventuno piccoli brani, il picco dell’umorismo in ambito compositivo dell’inimitabile compositore francese. Il silenzio, come la pausa di una semibreve, separa un brano dall’altro. E accresce il valore dell’esecuzione. Se li avessimo ascoltati su supporto non ne avremmo apprezzato la segmentazione, data la continuità della registrazione.
L’intervallo separa i due momenti della serata. Mentre i tabagisti scappano dalla sala in preda all’assuefazione da nicotina, noto: la telecamera posizionata sul palco d’onore, sotto lo stemma dei Savoia; il candelabro, che eleggo specchio della compenetrazione tra antico e moderno: un corpo di plastica a sostituire la cera, una luce elettrica a sostituire lo stoppino; la pluralità e la complessità dei temi affrontati dal pubblico rimasto in sala, dal referendum costituzionale al criterio musicale in grado di normare il repertorio in esecuzione; i due ventenni dietro di me che disquisiscono su quanto sia figo fumare la sigaretta nei bagni di Palazzo Reale. Nel frattempo, la società civile si ritrova dando vita a un materiale sonoro così diffuso nella società di massa: il cicaleccio.
La generazione dei musicisti napoletani, ora didatti, forse prova a rinverdire ricordi di anni spesi come studenti nei diversi luoghi della formazione musicale partenopea. L’intervallo dura dieci minuti. Tanto basta per far sfogare il pubblico, per tenerlo meglio a bada, dopo. L’intervallo funziona sempre. Sono l’unico in tuta. Il resto del pubblico indossa abiti più o meno classici, maglioni più o meno belli.
Tutti tossiscono prima che il concerto riprenda. Applauso. E il solista torna in campo. Viene eseguito, di Olivier Messiaen, Première Communion de la Vierge, da Vingt regards sur l’Enfant-Jésus, uno dei brani per piano solo tra i più celebri del repertorio contemporaneo. L’articolazione delle mani. Ho avuto la fortuna di assistere al concerto dal lato giusto per poterla apprezzare: resto strabiliato dalla capacità adattiva delle mani sullo strumento impiegato. Scusate il gioco di parole, ma sostiene tutta la produzione del musicista francese in questione: l’atmosfera messianica avvolge la sala, in una mutua compartecipazione tra arte e sacralità. Il fatto che il cellulare abbia campo significa che ci si possa comportare con la musica in esecuzione come musica da ascoltare mentre si controllano mail, social, pou. Insomma, che anche qui la funzione della musica sia la solita, l’accompagnamento. Chiude il programma Gaspard de la Nuit, di Maurice Ravel. I suoi tre movimenti (ondine, le gibet, scarbo), ispirati ad altrettante poesie di Aloysius Bertrand, suonano decisi, perentori, a riecheggiare il titolo: il custode della notte. Si tratta di un brano complicato, difficile, che richiede una padronanza tecnica assoluta. Longobardi è un pianista unico e permette agli astanti tutti di bagnarsi del flusso della sua esecuzione, in una auraticità che non paga i disattenti. I gesti di sospensione all’ultimo brano eseguito valgono come congedo.
È finito? È finito? Si chiedono dietro di me i ragazzi di cui sopra. Forse, contenti di abbandonare la sala. Piccolo appunto. La media anagrafica dell’incontro si abbassa sensibilmente, vuoi per il programma così stuzzicante, vuoi per la caratura dell’interprete in azione. I francesi eseguiti hanno la forza di attrarre un pubblico non da poco. Dunque, il repertorio non è neutro nel garantire il successo di queste iniziative.
Parte del pubblico, come quei credenti che lasciano il santuario non appena ricevuta l’eucarestia, si fa cogliere dalla prima nota della Pavane pour une enfante défunte all’altezza dell’uscio, in uscita; resta lì, prova a rientrare in sala, si mette in ordine, catturata da un brano così forte, così delicato. Ringrazio personalmente Ciro Longobardi per questa esecuzione, in grado di emozionarmi come poche altre volte mi era successo, finora, nel raccontare i luoghi della musica a Napoli. Un ultimo applauso e poi, animatamente, ognuno lascia la propria postazione per portarsi sullo scalone d’ingresso.
Chiudo con le parole dello stesso esecutore, strappate all’intervista che accompagna le note di sala distribuite prima del concerto: “Un bravo divulgatore è chi prova a liberare la musica moderna e contemporanea dal cappello intellettualistico che troppo a lungo l’ha appesantita e cerca di restituire interesse per la materia sonora”. Anche per questo, grazie. (antonio mastrogiacomo)