I primi casi in provincia di Napoli si registrano il 28 agosto 1973 quando all’ospedale Maresca di Torre del Greco muoiono due donne. Il giorno dopo i morti sono sette. Quando le autorità si decidono a nominare la parola “colera”, l’epidemia è già nella sua fase acuta.
Vengono istituiti centri di vaccinazione nei luoghi più disparati, dal palazzetto dello sport ai locali della base Nato, dalle sedi di partiti e gruppi politici ai locali dell’ufficiale sanitario del Comune. Si registrano proteste e incidenti, motivati in gran parte dalla lentezza delle operazioni, dalla mancanza dei medici o del vaccino, dalla sensazione diffusa nei quartieri popolari di ricevere un trattamento meno efficiente rispetto ad altre zone della città. In molti quartieri un ruolo di supplenza viene svolto dai militanti del Pci e da quelli dei comitati di base e dei centri sanitari autogestiti.
L’origine dell’epidemia viene subito attribuita all’importazione illegale di mitili dalla Tunisia (paese dove il colera è comparso nel mese di maggio) e in breve tempo il consumo di cozze diventa il principale imputato della diffusione della malattia. Il 30 agosto ne viene vietata la vendita. Tra il 4 e il 6 settembre, cinquecento carabinieri in assetto antisommossa, coadiuvati da mezzi della Marina militare, distruggono gli allevamenti di mitili del Borgo Marinaro, scatenando la reazione dei piccoli coltivatori e delle loro famiglie.
Con il passare dei giorni si fa strada la convinzione che le cause vadano ricercate piuttosto nelle disastrose condizioni dell’igiene pubblica e nell’inesistente manutenzione del sistema fognario, composto da numerosi alvei di raccolta scoperti, con scarichi (alcuni autorizzati, altri abusivi) che rilasciano direttamente in mare le acque nere. Nei quartieri di periferia si alzano barricate per chiedere la copertura degli alvei, la rimozione dei cumuli di immondizia, la messa in funzione dei depuratori, ma anche per l’adozione di misure contro la disoccupazione, aggravata dal temporaneo divieto del commercio. Nelle proteste sono coinvolti numerosi militanti dei gruppi di sinistra. Il 4 ottobre una manifestazione “intergruppi” di alcune centinaia di attivisti, partita da piazza Municipio sfidando il divieto di manifestare, finge di sciogliersi lungo la strada per poi ricomporsi nei pressi di via Duomo, dove incontra un presidio di disoccupati davanti agli uffici del collocamento. I due cortei si uniscono, la polizia non può impedirlo, ma poco dopo arriva l’ordine di caricare. Il bilancio degli scontri è di nove agenti feriti, quindici fermi e cinque arresti tra i manifestanti.
CANTIERISTI E CORSISTI
Nonostante i numeri contenuti (822 ricoveri, 126 casi, 19 decessi), l’epidemia porterà allo scoperto l’insostenibilità delle condizioni di vita nel capoluogo partenopeo. La città sofferente però reagisce e si mobilita. Le lotte per la casa e i servizi sociali, cresciute negli anni precedenti in parallelo con le agitazioni studentesche, convergono con le proteste operaie contro licenziamenti e cassa integrazione. La contestazione si allarga dal settore degli occupati verso i lavoratori precari e gli strati più marginali. Il Pci dà battaglia in consiglio comunale, ma in piazza è sempre molto attento a mostrare il proprio “senso di responsabilità” verso le istituzioni. Anche a causa di queste oscillazioni, le agitazioni del dopo-colera dovranno attendere più di un anno prima di coagularsi in un vero e proprio movimento politico.
Nei mesi che seguono l’epidemia, le richieste di risanamento igienico incontrano le iniziative di base contro il carovita (è cominciata la crisi energetica), lo sciopero dei fitti e soprattutto la campagna per l’autoriduzione delle tariffe elettriche, che tra il settembre ’74 e il febbraio ’75, avviata dai sindacati torinesi, si diffonde in tutta Italia e solo a Napoli coinvolge circa 60 mila persone, grazie alla spinta dei consigli di fabbrica e all’impegno dei militanti di base. L’obiettivo non è solo raccogliere il maggior numero di bollette da ridurre della metà (o da pagare otto lire al kilowatt), ma costruire un programma di rivendicazioni a medio-lungo termine che coinvolga consigli di fabbrica e di zona accanto a comitati di abitanti, scuole popolari, centri sanitari autogestiti e altri organismi di quartiere.
Al gran numero di napoletani senza lavoro o con un impiego precario e non dichiarato (nel ’73 sono circa 120 mila gli iscritti al collocamento di Napoli e provincia, un quarto della popolazione attiva), se ne aggiungono di nuovi in seguito alle scelte delle amministrazioni locali per fronteggiare l’epidemia. L’emergenza si rivela un’occasione propizia per smantellare molte delle attività semi-legali o illegali già messe in mora dai progetti di ristrutturazione urbanistica. Nel settembre ’73, circa ottocento allevatori di cozze, ritenuti responsabili del contagio, si ritrovano da un giorno all’altro disoccupati. Allo stesso tempo, la proibizione del commercio ambulante sottrae a centinaia di famiglie una fonte vitale di sussistenza. Nel giro di poche settimane si aggiungono a questi gli espulsi dai settori più colpiti dall’emergenza, a cominciare da quello turistico-alberghiero.
Le imputazioni rivolte ai presunti untori si ritorcono però rapidamente verso chi muove le accuse. Si moltiplicano infatti le proteste di piazza, gli scontri con la polizia, i blocchi stradali capeggiati da donne e giovani disoccupati, mentre nelle assemblee di quartiere vengono formulate le prime richieste collettive, tra cui quella di un sussidio immediato per tutte le famiglie colpite dal divieto di esercitare l’attività commerciale. Con la giunta comunale di centro-sinistra, che entra in crisi il 19 settembre, comincia a vacillare anche il sistema di potere che la famiglia Gava ha messo in piedi fin dai tardi anni Cinquanta coniugando gli interessi dell’impresa locale con le strategie degli enti statali che si occupano del Mezzogiorno.
Le proteste inducono l’amministrazione regionale a varare, nell’ottobre ’73, duecentoquaranta cantieri straordinari con l’obiettivo di ripulire la rete fognaria della città. In questo modo si fornisce un impiego provvisorio a circa cinquemila persone, una sorta di sussidio mascherato che non basterà a placare la tensione. I cantieri, infatti, durano appena sei mesi. Allo scopo di sollecitarne il rinnovo, i “cantieristi” si riuniscono a manifestare davanti alle sedi delle autorità responsabili. Hanno eletto un delegato per ogni cantiere e un direttivo di nove persone con la possibilità di revoca immediata da parte dell’assemblea. Nell’aprile ’74 viene concessa la proroga dei cantieri. Sui volantini compare per la prima volta lo slogan: “No all’assistenza, sì a un lavoro stabile e sicuro”. I disoccupati chiedono alle autorità di andare oltre i cantieri e di essere impiegati stabilmente in opere socialmente utili. Alla fine del ’74, scaduta la proroga ed essendo la maggior parte dei cantieristi di nuovo “a spasso”, si organizzano in comitati per ottenere che il lavoro continui.
Intanto nell’autunno ’74 il governo centrale e quello regionale istituiscono corsi di formazione professionale per circa 1.200 disoccupati napoletani e per altri 1.800 nella regione. I corsi durano sei mesi. Anche in questo caso si elegge un delegato per corso e cominciano le agitazioni con la richiesta che i corsi sbocchino in un impiego stabile. Nell’aprile ’75 i “corsisti” occupano la sede della Cisl, poi per alcuni giorni si insediano nell’Ufficio provinciale del lavoro. In entrambi i casi vengono sgomberati con la forza, ci sono contusi e fermi di polizia. In vista delle elezioni amministrative di giugno, i corsi vengono prorogati per altri sei mesi.
UN NUOVO MOVIMENTO
Negli ultimi mesi del ’74, in un comitato di quartiere del centro storico, in vico Cinquesanti, sorto per iniziativa di alcuni militanti del PCd’I marxista-leninista, cominciano a organizzarsi coloro che daranno vita al nucleo originario dei disoccupati organizzati. La prima lista di lotta stilata dal comitato Cinquesanti comprende i senza lavoro del quartiere San Lorenzo, cui si aggiungono molti dei disoccupati che ogni mattina stazionano poco distante da lì, sotto gli uffici del collocamento in via Duomo. La lista si allunga fino a comprendere settecento persone, le stesse che tra marzo e aprile del ’75, a pochi mesi dalle elezioni amministrative, scendono a manifestare quasi ogni giorno per le vie del centro cittadino. Quel che chiedono è riassunto in una piattaforma in quattro punti: un posto di lavoro stabile e sicuro; dei corsi di formazione finalizzati al lavoro; l’assistenza sanitaria gratuita estesa a tutto il nucleo familiare; e, in mancanza del lavoro, un sussidio pari all’ottanta per cento del salario operaio (rivendicazione quest’ultima che resterà inizialmente in sordina).
Il movimento prende corpo nel cuore della crisi, quando l’epidemia di colera si somma al declino dei vecchi settori produttivi, al blocco dell’edilizia, alla smobilitazione delle multinazionali. Fin dall’inizio le proteste mettono in discussione la regolarità delle procedure di collocamento. I disoccupati chiedono di abolire le chiamate nominali con le quali vengono sistematicamente eluse le graduatorie ufficiali, ed esprimono la volontà di censire e amministrare autonomamente i posti di lavoro disponibili. Il passo successivo – o almeno il tentativo operato dal movimento nella sua fase matura – sarà quello di “creare” i posti di lavoro, cioè di indurre, attraverso la lotta, aziende e istituzioni locali a metterne a disposizione di nuovi.
Nonostante un programma che mette in primo piano il rifiuto della precarietà, e quindi il raggiungimento di una condizione che accomuni i disoccupati a tutti gli altri salariati, il movimento finirà per spingersi al di là delle sue originarie rivendicazioni. Il rifiuto della ricerca individualistica del posto di lavoro, e quindi del sistema di soggezione clientelare, in una città governata dal potere democristiano e investita in pieno dalla crisi, assumerà ben presto sfumature “eversive” agli occhi delle istituzioni. La battaglia sindacale si farà lotta politica e il movimento, organizzandosi a sua volta come istituzione, agirà di fatto come un potere alternativo.
“LA NOSTRA FABBRICA È LA STRADA”
Il movimento si sviluppa in aperta opposizione alla Dc e questo consente di tenere aperto il dialogo con le forze della sinistra politica e sindacale. Combattendo il clientelismo con azioni eclatanti, i disoccupati contribuiscono a destabilizzare il sistema di potere democristiano, che tra il ’75 e il ’76 cede il passo alla crescita elettorale dei comunisti (che peraltro ha carattere nazionale). Le amministrative del 15 giugno ’75 danno alla sinistra una stretta maggioranza nel consiglio comunale. I democristiani si attestano al 28%, mentre il Pci raggiunge il 32% e diventa il primo partito della città. A settembre il consiglio elegge il comunista Valenzi sindaco di Napoli, alla guida di una giunta minoritaria di sinistra che si sostiene con il voto favorevole al bilancio di quattordici consiglieri democristiani. Gli altri undici consiglieri Dc, che fanno riferimento alla famiglia Gava, restano all’opposizione.
L’insediamento della giunta Valenzi non è un evento risolutivo ma costituisce agli occhi dei disoccupati un terreno più favorevole per condurre le proprie battaglie. Col passare dei mesi i margini di tolleranza verso il movimento si faranno più sottili. Il Pci farà propria la parola d’ordine della “produttività”, in fabbrica ma anche negli enti locali, bollando implicitamente come “assistenziali” le misure a favore dei disoccupati. I vincoli della spesa pubblica si faranno più rigidi, i ranghi dei partiti più serrati, finché ai disoccupati non resterà che l’alternativa tra l’affiliazione al sistema (senza condizioni) e lo scontro nelle piazze.
“Chi ha organizzato i disoccupati? – scrive Fabrizia Ramondino – ‘È la miseria che ci ha organizzati’, risponde in un’intervista un disoccupato. Ma accanto a questa miseria, che è il dato fondamentale, non bisogna dimenticare i fattori soggettivi: in primo luogo la memoria di tutte le lotte del proletariato precario napoletano dal dopoguerra, l’influenza delle grandi lotte operaie a Napoli a partire dal ’69, le lotte di quartiere per la casa, contro il carovita, contro il colera; e in secondo luogo il lavoro modesto, oscuro, ma costante, di molti militanti della nuova sinistra, presenti nei vari comitati come avanguardie nel movimento dei disoccupati organizzati”.
Il movimento dei disoccupati rappresenta di fatto la sintesi e il superamento di tutti i tentativi operati fino a quel momento dalle avanguardie di base. Stavolta, però, militanti e intellettuali non sono più in primo piano. Partecipano alle assemblee, mettono a disposizione le sedi o il ciclostile, ma accanto a loro ci sono gli ex artigiani, i lavoratori in nero e gli operai licenziati che vengono eletti delegati e assumono in prima persona la responsabilità delle lotte.
La grande partecipazione è dovuta anche al modo in cui funziona la lista, che richiede la presenza costante a tutte le assemblee, iniziative e cortei. “Chi non scende in corteo non avrà il lavoro”, è scritto sulla porta del comitato Cinquesanti. La lista di lotta non è una graduatoria, ma lo strumento adottato dal movimento per ottenere l’avviamento collettivo al lavoro, il modo in cui il disoccupato-numero del collocamento rompe l’isolamento, si lega agli altri e diventa artefice del proprio destino.
Le forme di lotta spaziano dai blocchi stradali all’occupazione dei binari ferroviari, dai presidi in piazza alle occupazioni di enti e istituzioni, fino agli scioperi alla rovescia. La circolazione di merci e cittadini, il regolare funzionamento degli uffici pubblici vengono quotidianamente messi in discussione. Ma le controparti non sono solo gli enti e le istituzioni locali. L’interlocutore principale, il responsabile delle politiche per il lavoro, è il governo centrale. Per questo si recano più volte a Roma, in autobus o in treno. “Allo stesso modo in cui gli operai bloccano la produzione in fabbrica – affermano i disoccupati –, noi blocchiamo il traffico della città. La nostra fabbrica è la strada”.
Le distanze tra lavoratori, studenti e precari d’ogni risma, che cominciano ad accorciarsi dopo il ’68, sembrano così quasi annullarsi nell’organizzazione dei senza lavoro, che opera a sua volta il tentativo più conseguente e caparbio mai realizzato dai movimenti di quegli anni per entrare in rapporto diretto con gli operai dell’industria. Al contrario degli studenti del ’68, che cercavano con gli operai un rapporto sul piano ideologico o politico ma non su quello del lavoro, i disoccupati organizzati perseguono un’alleanza proprio su quel terreno.
I momenti di solidarietà non mancheranno – il corteo a Roma con gli operai minacciati di licenziamento dalle multinazionali, i picchetti contro gli straordinari ai cancelli dell’Alfasud e dell’Italsider, l’intervento dei disoccupati allo sciopero generale del 12 dicembre ’75 –, ma il rapporto tra disoccupati e operai non sfocerà mai in una piena, operativa unità d’azione. I disoccupati continueranno a cercare appoggio e legittimità nelle assemblee di fabbrica o ai cancelli degli stabilimenti, ma dovranno fronteggiare ostacoli sempre maggiori – dalla diffidenza dei sindacati fino ai tentativi di strumentalizzazione, e poi all’aperta ostilità dei partiti – nel contesto di una crisi economica sempre più estesa, cui farà da contraltare la progressiva convergenza tra le forze politiche maggioritarie, il Pci e la Dc. Così, quando gli operai dovranno battere in ritirata di fronte alla ristrutturazione padronale, anche per i disoccupati organizzati il cammino si farà più solitario e accidentato. (luca rossomando)