Negli ultimi giorni ha avuto grande risonanza sui media napoletani la storia di Kelvin Egulbor, venticinquenne nigeriano detenuto a Poggioreale per un anno e otto mesi con l’accusa di estorsione. Egulbor è in realtà un giovane senza fissa dimora che beneficia delle attività assistenziali della parrocchia di San Vitale a Fuorigrotta, spazza la strada fuori la chiesa e chiede l’elemosina. Avrebbe minacciato un automobilista di danneggiare la sua auto in sosta al fine di ottenere due euro per “sorvegliargliela”. Nonostante l’avvocato del giovane abbia evidenziato la “sproporzione tra la personalità dell’imputato, il fatto in contestazione e la misura cautelare che impedisce a Egulbor di intraprendere una prosecuzione del percorso di vita e crescita personale”, la Corte d’appello gli ha confermato la precedente condanna a cinque anni (andrà ai domiciliari in una comunità del casertano). Qualche giorno prima che i giornali si interessassero di questo caso, di carcere in Campania si era tornati a parlare per alcuni accadimenti che meritano qualche riflessione.
Il 4 gennaio le agenzie hanno battuto, dopo le denunce della polizia penitenziaria, la notizia di una rivolta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, durante la quale i detenuti avrebbero vandalizzato il reparto Volturno e preso in ostaggio alcuni agenti (per capire il livello di allarme che viene diffuso si possono leggere questi articoli di Fanpage e di Quotidiano Nazionale o vedere il servizio mandato in onda dal Tg3 regionale). Checché ne dica la stampa, a Santa Maria Capua Vetere non c’è però stata nessuna rivolta – lo spiega bene qui il garante campano per i detenuti, parlando giustamente di “procurato allarme” da parte dei sindacati di polizia penitenziaria: la protesta (che è cosa diversa da una rivolta) ha coinvolto solo una decina di detenuti ed è rientrata velocemente. Non ci sono stati danni a persone né altri particolarmente rilevanti a cose.
Vale la pena ricordare che nel nuovo pacchetto sicurezza il governo Meloni ha inserito una fattispecie di reato ad hoc sulle rivolte in carcere e nei Cpr, reclamizzata dal sottosegretario Delmastro al grido di: «Mai più rivolte eterodirette dalla criminalità organizzata senza reazione da parte dello Stato!». Il provvedimento appare in realtà come una nuova misura di “repressione preventiva” nei confronti di potenziali contestazioni dell’ordine costituito (nel caso specifico quello di una istituzione totale): l’ordinamento italiano infatti già prevede dure pene per chi mette in atto rivolte nelle carceri, tanto è vero che ci sono centinaia di persone che rischiano dagli otto ai quindici anni per le sollevazioni del 2020. Dedicare un intervento ad hoc a un fenomeno così limitato costruisce invece la percezione di un’emergenza che non esiste, giustificando, non appena sarà ritenuto necessario, provvedimenti ulteriormente restrittivi e straordinari.
Torniamo alla cronaca nera, e a due morti a dir poco sospette avvenute in tempi recenti nelle carceri campane. La prima vide vittima Vittorio Fruttaldo, trentaseienne deceduto nel carcere di Fuorni, a Salerno, nel maggio 2022. Il procedimento che vedeva indagati due agenti di polizia penitenziaria per omicidio preterintenzionale è stato archiviato a ottobre scorso, perché assenti sarebbero le prove del pestaggio subito dal detenuto. La seconda morte è quella di un trentatreenne deceduto a Poggioreale, per la quale concreti indizi parrebbero ricondurre a un caso di omicidio (lunedì è prevista l’autopsia). Se scarse sono le notizie che trapelano dalle cronache sul decesso, ampia voce viene data, invece, anche in questo caso, ai sindacati di polizia: «La politica – spiega il segretario generale del SPP – è sempre più lontana dall’affrontare l’emergenza carceri. Temiamo che ci possano essere altre rivolte, a causa anche di un dilagante senso di impunità».
I sempre più aggressivi comunicati dei sindacati di polizia penitenziaria, che ritraggono le carceri come un fronte di guerra, non stupiscono chi ha contezza di un conflitto in effetti in atto, sebbene il bersaglio dell’offensiva sia uno solo: la popolazione detenuta. Le forze militari che operano in carcere hanno d’altronde già raggiunto – anche attraverso questa rodata strategia – il primo tra i propri obiettivi, con la recente circolare sulla Media sicurezza che limita le possibilità per i detenuti di accedere a un regime “a celle aperte” e alla sorveglianza dinamica. È evidente che con il governo Meloni il terreno è considerato fertile per poter spingere ancora oltre, nell’ottica di un ulteriore ritorno al passato in termini di diritti dei reclusi e di segregazione spaziale.
Questi problemi in Campania sembrano addirittura più urgenti che altrove, considerando per esempio il tasso di sovraffollamento di alcune carceri, tema scottante tanto per i detenuti quanto per gli agenti. Se per ragioni di dignità umana e vivibilità la soluzione naturale sarebbe quella di svuotare le carceri (si potrebbe cominciare con chi è in prigione per reati legati alle sostanze stupefacenti o alle politiche migratorie, con chi ha un residuo di pena breve o con chi è in attesa di giudizio per reati minori), lo schieramento vincente è risultato quello del custodialismo e della segregazione. Il risultato in Campania è emblematico: su quasi settemila detenuti totali sono meno di settecento quelli che possono usufruire del regime di sorveglianza dinamica (in Lombardia sono quasi duemila e cinquecento, su poco più di ottomila totali). Tra luglio e dicembre 2022, inoltre, i detenuti in sezioni a custodia chiusa sono aumentati di quasi cento unità tra Salerno, Napoli Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere e Benevento.
È chiaro che questi dati – come il fatto che le carceri del sud del paese vivono una situazione estrema, e che i numeri dei detenuti provenienti dalle regioni meridionali sono altissimi – non interessano a nessuno. I pochi giornalisti che provano a fare inchiesta sulle condizioni di detenzione o sulle continue violenze nei reparti da parte della polizia sono isolati nelle redazioni, mentre le “grandi firme” vengono mandate in campo una volta che i casi sono troppo grossi per essere ignorati; le denunce delle associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti vengono ascoltate solo quando ormai, tanto per restare in Campania, “il morto sta a terra”; anche i militanti difficilmente riescono a rompere il muro costruito con cura dal potere, attraverso l’utilizzo strumentale delle paure sociali e la costruzione di emergenze in realtà inesistenti. Difficile allora capire “che fare”, e come fare, senza farsi prendere dallo sconforto. Alcune esperienze collettive, però, stanno dando dei frutti, magari non in termini di risultati concreti ma come esempio di metodo, in particolare in quei casi in cui la militanza trova terreni di dialogo con la ricerca e con gli “addetti ai lavori”: è il caso della rete di avvocati che sta seguendo il processo per le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, scontrandosi con un moloch che appare difficile da far vacillare, ma che sembra di tanto in tanto lasciarsi scalfire. Per mantenere la posizione e non essere costretti ad arretrare, nel nostro piccolo, non resta che essere presenti e raccontare, per mostrare che la lotta, per quanto impari, va alimentata e soprattutto può pagare. (riccardo rosa)
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