Quello che mi fa girare la testa quando si parla di free party, rave e feste, non è quello che si dice ma quello che non si dice; sono le storie non raccontate e che probabilmente non lo saranno mai. Storie dimenticate, rimosse, o confuse nel marasma di ricordi senza né capo né coda di chi le ha vissute, frutto di troppe notti passate in bianco una dopo l’altra – e che bianco. Ogni racconto sembra sottendere un’eccedenza che si allunga come un’ombra al tramonto. Una eccedenza infinitamente più grande, che allude a un eccesso di vissuto perso tra le curve della memoria e del linguaggio, e che in teoria dovrebbero collegare il tale fabbricone, perso in località X in una notte di una dozzina di anni fa, con il qui e adesso della parola o della scrittura.
Ultimamente abbiamo assistito a un ritorno dei free party in location inedite, come le librerie; ritorno che ha provocato l’attenzione di critici e giornalisti, con qualche apparizione su testate nazionali o nei telegiornali di prima serata. In chi ha speso un pezzo significativo della propria giovinezza tra capannoni polverosi e statali dimenticate da Dio e dagli uomini, questa attenzione ha provocato sentimenti opposti e complementari. Da una parte la soddisfazione nel vedere un certo rispetto per un movimento trasversale che è riuscito a mobilitare, in maniera autorganizzata, migliaia di persone attraverso tutta l’Europa, quasi ogni weekend per circa vent’anni, anche prima del boom di internet. Dall’altra l’amaro in bocca per un’assoluzione post-mortem, in cui a cadavere ormai freddo si trova il tempo per dire che, in fondo, “era un bravo ragazzo”. Ridotto nei numeri e depotenziato di ogni aspetto antagonista, forse anche il free tekno è pronto per avere la propria sezione nel museo della controcultura, corridoio in fondo a sinistra dopo il punk. Ed è in quest’ottica che tutti i contributi venuti fuori nell’ultimo anno potrebbero anche assumere l’aspetto triste di corone di fiori al funerale, considerando anche la scarsa tendenza alla produzione di documenti scritti da parte del movimento durante le sue fasi più intense. Ma dopotutto, dove trovare il tempo per descrivere certe cose, quando il tempo bastava appena per viverle? Non vogliamo, tuttavia, abbandonarci alla nostalgia. Se nulla è più com’era è perché oggi non è più ieri, ma anzi è quasi domani, per fortuna; e dopotutto c’è chi ancora si sbatte per montare “un muro” in una sperduta provincia toscana, e a loro va tutto il rispetto del caso.
Per chi alla fine degli anni Novanta era un ragazzino, affamato di vita e di esperienze fuori dal normale, i party erano l’unica destinazione possibile. Ricordo i primi contatti indiretti con il mondo del free tekno. Nell’autunno del 1998 si stazionava regolarmente in piazze e piazzette del centro di Napoli, finché un giorno un tizio vestito di nero passa e ci allunga un volantino fotocopiato con su scritto Tomahawk/D-Storm/Napoli Area. Una data, un numero di telefono e niente più. Pare fosse – anche se lo capii solo anni dopo – la famosa occasione in cui un ragazzo francese si beccò una coltellata da qualcuno che voleva imporre una specie di pizzo sulla festa, causando la temporanea cancellazione della Campania dal circuito dei free party internazionali. Qualche mese più tardi, una telefonata dall’Umbria di un amico d’infanzia mi metteva al corrente dell’attraversamento del placido borgo di Castel Viscardo da parte di una carovana di tir e corriere, camper e mezzi militari, a cui il paese aveva reagito serrando porte e finestre e sbirciando impaurito da dietro le tende. Si trattava della carovana che nel giugno del 1999, allontanata dalla prescelta location in Toscana, si spostava dietro suggerimento e con tanto di scorta della polizia verso Bolsena per dar vita al Solar Sonika, uno tra i primi grossi teknival a svolgersi sul territorio italiano. Il primo ad avere una così forte risonanza mediatica.
“Sono arrivati con i loro camion, che sono metà case e metà discoteche viaggianti. Sono arrivati con i loro camion colorati carichi di alcol, dischi di vinile, jo-jo, felpe col cappuccio e nuove droghe. Come lo Skunk, un fumo dedicato alla cantante degli Skunk Anansie. Sono arrivati da tutta Europa e sul lago di Bolsena, nel nord del Lazio, ancora tutti si chiedono: ma chi sono? Sono rocker, hippie, raver? Sono traveller, l’ ultima tribù metropolitana”.
E ancora:
“I teknival rappresentano anche un’occasione di socialità, uno scambio di informazioni e aggiornamenti musicali. Con aspetti anche ludici. Al Solar Sonika, per esempio, spopola il biliardino fosforescente che tra l’altro offre il lato segnapunti come comoda base per la preparazione dell’anfetaminico speed. Il prossimo appuntamento? La festa di fine millennio in Portogallo o in Australia”.
A rileggere oggi questo articolo di Repubblica c’è da rimanere di sasso. Per le perle in fatto di sostanze (e i camion carichi di jo-jo), e per i toni pacifici con cui veniva descritta una occupazione – che durò sei giorni e sei notti – a 180bpm, delle sponde del lago. Toni che sarebbero a breve cambiati, dopo la tragica morte di un ragazzo nelle acque del lago, uno dei primi casi del genere a guadagnare gli onori della cronaca, e purtroppo non l’ultimo. Quello che salta all’occhio, però, è l’impossibilità, per i giornalisti dell’epoca, ma in fondo anche per i partecipanti, di incastrare il free tekno in una definizione precisa, elemento che ne costituiva la forza maggiore. Il party ha sempre funzionato sulla base di un effetto sorpresa, il collante capace di tenere insieme una catena improbabile, composta da un posto che non ti aspetti, inculato in una provincia che manco sapevi esistesse, per una situazione che hai visto prima solo al cinema, dove si suona una musica mai sentita, e che nessuno sa bene per quanto tempo durerà. Il tutto generosamente annaffiato delle più varie sostanze psicotrope, seppur in quantità non superiore a tante discoteche o piazze cittadine.
Quando questa catena ha iniziato a essere privata anche di un solo elemento, l’effetto non è più stato lo stesso. Party in location già note ai partecipanti così come alle forze dell’ordine, o vicine a strade principali e centri abitati; musica lentamente scivolata verso la routine di un genere, rielaborato senza neanche troppa fantasia (una tekno “barattolara”, come l’ha ben definita Francesco Birsa Alessandri); una programmazione a cadenza settimanale con durata di poco superiore agli standard di una discoteca e una attenzione sempre più scarsa all’ambientazione, alle decorazioni e alla messa in sicurezza dei luoghi (un esempio per tutti: l’infame Tor Cervara). Tutto questo ha pian piano incrinato quella magia che rendeva un fabbricone lurido un posto strafico, producendo un generale abituarsi dei partecipanti ai tempi e ai modi di vivere in festa, anticamera della stessa noia che si cercava di scacciare. Da qui all’apparizione della ormai celebre “divisa” (canotta da basket per lui, gonnellino zebrato per lei, scarponi da skate per entrambi) il passo è breve. Nel frattempo si assisteva allo sdoganamento di sostanze come crack ed eroina, spesso additato come la causa principale del declino dei free party, dipendente anche dalle oscillazioni del mercato dei consumi esterno. Durante gli anni Duemila, per esempio, la cocaina fumata ha visto un boom di diffusione a tutti i livelli, e la rapida espansione delle basi di crack su tutta la provincia di Napoli. Tuttavia, nell’ambito dei free party, sembra ragionevole collegare la diffusione di certe sostanze proprio al processo di routinizzazione e normalizzazione dell’esperienza, in cui l’utilizzo massiccio di internet ha giocato un ruolo fondamentale. Quando il passaparola e i flyer fotocopiati hanno cominciato a essere sostituiti dalle infoline alla mercé di sbirri, coatti del sabato sera e spacciatori di professione, il risultato è stato il picco massimo della scena, con qualche anno di feste spaziali e numeri mai visti, ma allo stesso tempo il colpo di grazia a quel regime di invisibilità che aveva permesso ai party di progredire e ingrandirsi conservando lo spirito originario.
Per noi ragazzetti ancora privi di patente, accostarci ai party voleva dire macinare centinaia di chilometri sulla base di una voce di dubbia provenienza, o di un volantino fotocopiato passato di mano in mano. Il modo più semplice per spostarsi era imbucarsi su un regionale per Roma e raggiungere a piedi un noto bar di San Lorenzo, per verificare la fondatezza delle informazioni, e nel caso scroccare un passaggio verso destinazioni mai sentite: la Città Morta, Valle del Salto, la Buffalotta chilometro sessantaquattro. Nei casi più complessi ci si ritrovava di notte in qualche remota stazione della provincia padana, da qualcuno individuata come “la più vicina alla festa”. In attesa di qualche furgone diretto al party ma pronti, all’occorrenza, a farci a piedi la statale. La difficile reperibilità, e l’altrettanto difficile replicabilità dell’esperienza della festa erano insomma un valore aggiunto, che anziché scoraggiarci ci rendeva più motivati.
Poi iniziammo a muoverci con camper e furgoni, appropriandoci a piene mani di una geografia aperta e imprevedibile, in cui le distanze erano molto relative ed i cinquecento chilometri per Firenze erano poca roba rispetto alle quindici ore che ci separavano dal sud della Francia, e che affrontavamo come una parte del gioco. Quello che i free party hanno insegnato a una generazione (o almeno a una parte di essa), oltre ai nomi di tutte le uscite della A1 e a un discreto numero di modi poco puliti per fare soldi, è la forza del desiderio collettivizzato e privo di ogni gabbia normativa o ideologica, in grado, nei casi più fortunati, di piegare la realtà ai suoi bisogni. Nessun posto è troppo lontano e nessuna avventura troppo assurda: noi ci si mette in strada, qualcosa succederà.
Il primo gennaio del 2002 il comune di Aprilia, non sapendo come raccapezzarsi di fronte alle migliaia di persone che avevano preso possesso di una fabbrica dismessa e non mostravano alcuna intenzione di andarsene, pensò bene di noleggiare una ventina di bagni chimici e metterli a disposizione dei ravers. Il teknival in Valdarno dell’estate 2004, raccontato in maniera splendida nel romanzo di Vanni Santoni, doveva inizialmente svolgersi in un boschetto su una collina dei dintorni che si rivelò troppo piccolo per le quindicimila persone che vi stavano convergendo da tutta Europa. Era, inoltre, di proprietà di un tizio che lo affittava ai cacciatori durante la stagione venatoria. Ricordo distintamente un dialogo tra questo presunto proprietario, che strillava dell’arrivo di cacciatori “pronti a sparare a qualunque cosa si muova”, e un ragazzo dall’accento padovano indignato dal fatto che si insinuasse che lui organizzava le feste “con la buccia del cazzo”. In mezzo c’erano due carabinieri che provavano a far da pacieri, e che telefonavano al comune chiedendo di fornire un posto più adatto.
Per ogni episodio come questo, quanti sono andati perduti per sempre, non registrati, confusi, dimenticati, rimossi? Stiamo parlando, è bene ricordarlo, di un fenomeno che ha avuto luogo un attimo prima dell’esplosione di youtube e degli smartphone, e in un certo senso da ciò è stato preservato. Ma per ogni festa di cui è possibile ritrovare su internet un trafiletto di cronaca, una foto o un post su un forum che sembra appartenere alla preistoria del web, eccone dieci, cento, mille di cui non è rimasto nulla. Eppure anche lì si è vissuto, si è ballato, si è amato, ci si è radunati a centinaia o migliaia. Al di fuori dalla mappa, in quello che Gilles Clément chiama “il terzo paesaggio”. E pensare di averci perso le chiavi di casa, o l’ultima canna, nel terzo paesaggio, e che dopo dieci anni queste siano ancora lì, dove le hai cercate ma non sei riuscito a trovarle, è una idea che alimenta un vago quanto glorioso senso di vertigine. (brian d’aquino)
PUNTATE PRECEDENTI:
Disco devil. Un’inchiesta a puntate sul mondo delle dancefloor
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