Napoli odora di legno bruciato. Ovunque macerie – che in alcuni casi ostruiscono completamente le strade –, crateri di bombe e tram abbandonati. Il problema principale è l’acqua. Le due spaventose incursioni aeree del 4 agosto e del 6 settembre hanno distrutto tutte le condutture […].Per completare l’opera di distruzione degli Alleati, le squadre dei guastatori tedeschi sono andate in giro a far saltare in aria tutto quanto di utile alla città ancora funzionasse. La grande sete collettiva di questi ultimi giorni è stata tale che, ci hanno detto, la gente ha provato a cucinare con l’acqua di mare, e sulla riva si sono viste famiglie intere accovacciate intorno a strani marchingegni, coi quali speravano di riuscire a distillare l’acqua salata per poterla bere. (Napoli, ’44, Norman Lewis)
Nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale s’incrociano questioni cruciali che aiuterebbero a capire anche la Napoli di oggi. Le Quattro Giornate; i bombardamenti dei tedeschi e degli Alleati; lo sbarco degli angloamericani che trovarono una città ferita, dilaniata fin nelle fondamenta: in svendita. Settant’anni non sono tanti, eppure di quel periodo ci siamo totalmente dimenticati, come se di Napoli occorresse raccontare – spiegare, classificare, interpretare – solo il presente. Anche per questo torna utile Napoli ’44, il docu-film che il regista Francesco Patierno ha tratto dall’omonimo libro dello scrittore inglese Norman Lewis, nelle sale da circa un mese e prossimamente in programmazione su Rai e Sky. Il libro è una delle cronache più vive e al tempo stesso disincantate di quel periodo, che alla narrazione neutra alterna il taglio più antropologico di chi, da esterno – Lewis faceva parte dell’esercito inglese – era rimasto inevitabilmente, forse a tratti anche orientalisticamente, coinvolto dagli eventi che raccontava.
«Napoli ’44 mi ha attirato per la qualità della scrittura e perché racconta molto bene un popolo e una città poco classificabili, proiettandoli nel presente, forse anche nel futuro», mi dice Patierno al telefono. Le cronache di Lewis attraversano luoghi e spazi diversi: dalla città all’agro nocerino; dalle esplosioni di ordigni a scoppio ritardato con cui i tedeschi avevano disseminato i quartieri di Napoli all’eruzione del Vesuvio nel ’44, quando a fermare la lava si racconta furono le statue di San Sebastiano e di San Gennaro messe al centro della strada. Nel mezzo, i personaggi incontrati, bozzetti singoli o corali che della Napoli di quel periodo ci restituiscono impressioni che riguardano gli argomenti più svariati, dalla semplice sopravvivenza della popolazione all’intrusione degli Alleati nelle abitudini sessuali e sentimentali di chi aveva perso la guerra: “Così il lungo, delicato, elaborato corteggiamento napoletano – complesso quanto il rituale amoroso di un uccello esotico – è stato rimpiazzato da un approccio brutale e muto e da un puro e semplice atto di compravendita. C’è da chiedersi quanto tempo impiegheranno i giovani di Napoli, dopo che ce ne saremo andati, per riprendersi da questa amara esperienza”, scrive Lewis.
A tutto questo Patierno ha dato corpo e spessore attraverso una lettura soprattutto documentaristica. La lavorazione del film è durata circa due anni, in gran parte impiegati a recuperare il materiale video dagli archivi italiani (Rai, Istituto Luce) ma ancor più dagli archivi inglesi e americani, da cui la troupe ha preso in prestito girati inediti «che non aveva ancora visto nessuno», spiega il regista. Il reperimento delle immagini ha influenzato, di volta in volta, anche la sceneggiatura del film: «Si è trattato di un lavoro senza data di scadenza, che non avremmo potuto fare senza un’adeguata produzione alle spalle. Ho selezionato le parti del libro in modo da essergli quanto più fedele possibile; contemporaneamente cercavo di capire quali episodi avessero una migliore resa e copertura visiva, senza orientarmi definitivamente né verso la fiction, né nel documentario tout court. L’obiettivo era entrare nella storia il più possibile e un po’ come medium restituirla al pubblico, in modo che potesse farsi la sua idea».
Come in altri lavori precedenti, Patierno ha creato un corto circuito tra passato/presente e realtà/finzione anche attraverso un’interessante manipolazione di spezzoni di film ambientati in quel periodo. Oltre Paisà di Roberto Rossellini, Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, Il miracolo di San Gennaro di Dino Risi, anche pellicole meno note come Il re di Poggioreale di Duilio Coletti o Catch 22 di Mike Nichols. A fare da collante – «una delle poche cose su cui ero sicuro», dice Patierno – la voce off di Lewis anziano che idealmente ritorna nella Napoli di oggi, misterica e (ancora) splendidamente decadente. La narrazione plana così su immaginari diversi, alternando – su sequenze di musica elettronica – l’altissima qualità delle riprese della Napoli contemporanea e la resa imperfetta dei filmati d’epoca, spesso graffiati, spezzati, monchi. Ne viene fuori il racconto di una città metafora, fedele al libro e ai suoi umori, forse anche perché Patierno – nato a Napoli ma cresciuto a Roma – ha incarnato e reso quel sano distacco, con un punto di vista tutto sommato neutro e non ideologico nei confronti di queste storie. Allo stesso tempo, il film fa un passo in avanti: le immagini sono più forti della scrittura, soprattutto se, come in questo caso, sono vere. «Presto il film girerà anche per festival internazionali. Per il momento abbiamo fatto delle proiezioni con un pubblico misto, è successo che alcuni americani in sala siano rimasti piuttosto disturbati dalla visione. Solitamente dell’Italia all’estero si raccontano solo i luoghi comuni, anche sulla fine della guerra. Forse in questo film si vede che gli Alleati non sono stati liberatori e basta». (francesca saturnino)