E allora non mi resta che augurarti una casa, un Barco, un bosco, sfumato dalle nebbie o fresco nell’alba, dove sederti e ragionar di te, del tempo, delle cose amate o future, insieme con chi ti ascolti e poi se ne faccia arte, musica, parola, pittura, danza, muover di soli e d’altre stelle, lampo, dote, eredità del dialogo fra i tempi, perché il figlio dei figli dei tuoi figli un giorno sieda qui a meditarne con spirito lieto e sentimento in un gennaio che ancora veda la luce di un altro tempo. (Anagoor, Rivelazione)
«Apparteniamo a una generazione che non ha conosciuto il proprio territorio vergine ma è nata e cresciuta durante e dopo la sua definitiva devastazione. Un periodo storico in cui le Venezie sono tornate a essere un singolare motore economico, produttore di consumi e ingranaggio della cultura mercantile globale, porta inevitabilmente aperta agli orienti del mondo, con tutte le conseguenti tensioni generate dal pensiero miope di chi crede che la porta aperta da Venezia al mare non debba essere altrettanto aperta dal mare a Venezia. Questa generazione non conosce guerre, visto che l’occidente le ha allontanate da sé spingendole in Terre Sante perennemente ferite. Ma è la prima ad aver assimilato l’angoscia di un olocausto nucleare, la paura di pandemie e di un contagio sessuale che ha cambiato per sempre l’amore, l’inquietudine per un visibile collasso ecologico».
Il passo dalla vita di Giorgione – pittore di Castelfranco Veneto cui gli Anagoor dedicano le “sette meditazioni” di Rivelazione, in scena all’Asilo Filangieri lo scorso 21 febbraio – alla nostra contemporaneità è breve. Per “nostra” s’intende non solo questo tempo presente, ma il suo impatto su una fascia “generazionale” specifica cui gli Anagoor – collettivo teatrale originario di Castelfranco attivo da oltre un decennio – appartengono e, in fin dei conti, fanno riferimento. Questo è un punto nodale per comprendere il loro lavoro, perché segna una frattura netta anche con una certa critica: quella seduta comoda, adagiata, arroccata nella propria posizione, che certe urgenze non le avverte, non le sente proprio più.
«Siamo diventati adulti mentre era in atto una trasformazione politica e fisica del territorio. Il cambiamento determinato dall’ascesa della Lega è stato foriero di forti riflessioni, forse evidenti e banali dall’esterno, ma sconvolgenti se viste dall’interno. È cambiato non solo il paesaggio, ma anche l’esistenza e il carattere delle persone: la mente, la lingua, l’immaginario e le parole», racconta Simone Derai, regista e co-drammaturgo della compagnia, durante l’incontro pubblico all’Asilo prima dello spettacolo. E non è un caso che, dopo anni di lavoro sul territorio locale e l’acquisizione di certa solidità ormai anche a livello nazionale, gli Anagoor abbiano scelto di riportare in giro per l’Italia lo spettacolo/manifesto della loro poetica: «Con Giorgione è iniziato un percorso di risposta forse non diretto ma “in diagonale”, che cercava di mettere a fuoco una possibilità di allenamento dello sguardo. Si trattava di scegliere un esempio della tradizione, molto vicino a noi, e di catturare una sensibilità in cui ci riconoscevamo: quella sensazione di devastazione non imminente ma avvenuta con cui fare i conti, o provare a farli».
Il collegamento tra un passato imbalsamato e fintamente glorioso e un presente problematico – questo sguardo diagonale e trans-temporale è una delle cifre riconoscibili degli Anagoor – è presto fatto: «Giorgione – continua Derai – ci viene trasmesso dalla tradizione come il campione di un Rinascimento veneto, di una Serenissima a cui guardare con ammirazione, che in realtà di serenissimo aveva ben poco. Volevamo mettere in crisi l’utilizzo bieco della tradizione e di un certo immaginario. Da lì in poi siamo tornati a prendere in mano delle icone – Virgilio, Socrate, ma anche Don Bosco – per farle brillare, disintegrarle per vedere al di là del santino. Alla base c’è la necessità di superare una trasmissione data e di metterla in crisi». E aggiunge Marco Menegoni, attore e componente del collettivo: «Giorgione viene preso come un cantore della campagna, una campagna che non esiste più perché adesso il Veneto è tutto cementificato e orribile, drammaticamente orribile».
È notevole quanti siano i punti di contatto tra la Venezia di fine Quattrocento – raccontataci nelle suggestioni letterarie, poetiche e visive di Menegoni, solo sul palco con due microfoni, una pila di libri e due schermi calati dall’alto – e l’oggi. Una società superba e arrogante nel momento massimo della sua espansione, alla vigilia di una guerra che l’avrebbe devastata; una città-metropoli, «gente del nord-est che lavora», divisa in cittadini, mercanti, artisti; ai margini, migliaia di clandestini, «extracomunitari, badanti, gente senza permesso di soggiorno si direbbe oggi». Tutt’intorno nebbia e rumori d’acqua, musiche e tamburi: una retorica dello stordimento, un’alzare tutti quanti la voce per non sentire: «La gioventù dorata di Venezia trasudava lusso di feste in maschera in cui nascondere la faccia e la paura in questo tempo che sta cambiando».
Le cronache raccontano che una notte un gruppo di ragazzi della bella società, inebriati ed eccitati, fracassarono le gondole in Canal Grande. La mattina dopo Venezia ammutolì davanti allo scempio. Aneddoti storici, estratti cinquecenteschi del filosofo Agrippa Von Nettesheim, dello storico dell’arte Giorgio Vasari costruiscono una particolare biografia; le riflessioni sul desiderio di Lucrezio si fondono coi beat elettronici che pompano e graffiano, mentre pian piano ci avviciniamo alla figura misteriosa – e ai dipinti altrettanto misteriosi – di Giorgione, pittore morto giovanissimo, probabilmente di sifilide, nel Lazzaretto della città. Con lui gli Anagoor condividono un modo di sentire, di sopravvivere a un mondo che sta affondando: «Una percezione di noi stessi, locali e globali, visione intima e quadro d’insieme: la condizione umana di cosciente essere effimero rimane il primo motore dell’angoscia e dei suoi risvolti più sublimi: l’arte e la poesia».
Uno spettacolo/ lezione che la platea stracolma del teatro dell’Asilo Filangieri ascolta in un silenzio religioso. A Napoli gli Anagoor erano venuti nel 2105, quando il Teatro Festival gli dedicò una mini personale. Questa volta, dopo aver fatto tappa a Milano, Firenze e Roma, l’Asilo è stato l’unico spazio in città ad accogliere la compagnia. E forse è perché siamo in un luogo non canonico, riempito da un pubblico trasversale e misto, che lo spettacolo decolla, si carica di senso, esplode. Una rivelazione vedere tanti giovani letteralmente stregati da un altro coetaneo che legge libri antichi e spiega la natura pulsante e quasi mistica dei quadri di Giorgione.
L’attaccamento degli Anagoor a un teatro legato alla pedagogia è da rintracciare nella genesi della compagnia che risale al liceo Giorgione di Castelfranco Veneto; qui all’inizio degli anni Novanta arrivò Patrizia Vercesi, giovane insegnante di latino e greco (e attuale co-drammaturga del collettivo), appassionata di teatro contemporaneo e diede vita a un laboratorio teatrale con modalità inedite e radicali per l’epoca, chiamando esperti anche da fuori. All’interno di quest’esperienza, poi ereditata dalla compagnia, si è costituito un lessico che ha portato alla creazione teatrale. Quando parliamo della potenziale problematicità del “dare lezioni” a teatro, Derai risponde: «L’aspetto della lezione in parte viene dal fatto che un capitolo di Virgilio (cui gli Anagoor hanno dedicato il lavoro Virgilio Brucia) si apre direttamente sulla scuola, che noi proveniamo dall’ambito scolastico. La scuola è il tema, e non per forza una cattedra da cui pontificare. Una nazione che non si occupa seriamente della scuola, intesa come quel tempo in cui garantiamo ai giovani un percorso per diventare cittadini, è un paese che non pensa a se stesso come dovrebbe».
E se le “Venezie” sprofondano, alla fine del Quattrocento come nei primi decenni di questo nuovo secolo – mentre scrivo ci sono circa diciotto gradi esterni, in alcune parti d’Europa il prezzo della frutta e verdura nei supermercati ha toccato il tetto massimo per scarsità di reperimento; un pazzo vuole costruire un muro tra Stati Uniti e Messico e stiamo entrando nella seconda era nucleare, senza contare che la grande maggioranza dei miei coetanei è fuori dal mercato del lavoro –, allora forse ha senso, per una sera, concedersi il lusso di sedere insieme a «ragionare del tempo, delle cose amate o future e poi farne arte, musica, parola, pittura, danza». Muover di soli e d’altre stelle «con uno sguardo prospettico alle cose future». E chissà che l’arte, questa volta, non ci salverà. (francesca saturnino)
Leave a Reply