Ljuba è una nostra amica ucraina. Mia e della mia compagna. Da qualche anno viene a casa nostra una volta a settimana a fare i servizi che non riusciamo a fare. Un po’ a noi dispiace, perché Ljuba faceva l’insegnante nel suo paese, e racconta cose interessanti quando ne parla. Doveva essere una brava insegnante. Noi vorremmo che facesse un lavoro più soddisfacente rispetto alle sue passioni e competenze, ma in Europa il riconoscimento del titolo di studio per i cittadini non provenienti dall’Unione è molto problematico, e lei lavora tantissimo, non ha tempo per studiare e fare altro. Sappiamo però anche che questo lavoro le serve e quindi ci pesa un po’ meno.
Ljuba è lontana da casa da molti anni. Ha viaggiato. È riuscita a prendere un permesso di soggiorno temporaneo in Italia e questo ha reso la sua vita un po’ meno complicata. Napoli le piace, si trova bene, ha abitato nel centro storico e poi in altri quartieri della città. Oggi vive con alcune amiche a Fuorigrotta. Ogni tanto segue le partite del Napoli e le commentiamo insieme.
Quando è scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina, Ljuba ha pianto molto. Durante alcuni interminabili pomeriggi piangeva e lavorava, lavorava e piangeva. Ci raccontava di tutti i suoi amici che stavano morendo, della paura per la sua famiglia, per la sua città. Noi le dicevamo di fermarsi, che potevamo restare ad ascoltarla, o che se preferiva poteva tornare a casa. Ma lei ci rispondeva che lavorare la distraeva. E quindi ascoltava le notizie provenienti dal suo paese via radio, e lavorava.
Questo mese Ljuba è tornata a casa. Mancava da molti anni, ma solo ora ha avuto un semi-documento di uno stato europeo che riconosce il suo status e solo ora è potuta andare a trovare sua madre. Proprio ora che nella sua città c’è la guerra. Io e la mia compagna siamo stati molto in pensiero. Lei ci aveva raccontato che sarebbe stata dura, ma non poteva rischiare di perdersi questa possibilità.
Ci siamo sentiti spesso durante il viaggio, durato due notti e tre giorni, via WhatsApp. Lei ci raccontava delle lunghe soste a ogni frontiera, in particolare quella ungherese, dove il bus è rimasto fermo per più di dodici ore, e gli è andata pure bene. In Ungheria ci sono i fascisti. Beh, non solo in Ungheria, però lì con i migranti non scherzano. In effetti da tante altre parti non scherzano. Fatto sta che all’arrivo del bus alla frontiera i militari ungheresi controllavano ogni documento meticolosamente, e la fila contava oltre venti pullman.
Poi Ljuba è arrivata a casa. Anzi è arrivata a Odessa, e da lì ha preso un pullman per la sua città, Nikolaev. A Odessa, mentre aspettava, si è fermata a un bar che si chiama Caffè Napoli. La parte ucraina del viaggio è stata la più difficile, perché molte strade non erano percorribili e il bus se n’è andato su e giù per il paese prima di giungere a destinazione. Dopo otto anni Ljuba, comunque, ha potuto riabbracciare sua mamma, che di anni ne ha settantatré. L’ha trovata un po’ invecchiata, soprattutto non vede più bene.
Durante il suo soggiorno in Ucraina abbiamo continuato a scriverci. I suoi messaggi erano tipo così: “A volte sparano. Si sentono esplosioni in lontananza per tutta la giornata. Esco difficilmente, in giro c’è pochissima gente, è come una città di morti. Sono rimasti solo gli anziani, non molti i giovani”. Ljuba parla molto bene l’italiano. Ancora: “Ci sono la sorella di mia madre anche, e suo marito. Alcuni vicini, tutti abituati a questa vita. Ricevono gli aiuti umanitari, ora va meglio perché la zona di guerra si è un po’ allontanata. Quando ci sono i bombardamenti si nascondono nei rifugi antiaerei. Io non sono mai andata giù, corro in bagno e mi chiudo lì”.
Dopo tre settimane Ljuba è rientrata a Napoli. Quando è venuta a casa ci ha portato dei bei sottobicchieri in legno. Noi le abbiamo fatto trovare la mozzarella che avevamo preso in Cilento e le ciambelle del Mc Donald’s. Siamo stati a parlare a lungo ed è stato uno dei contatti più prossimi che abbiamo avuto nella nostra vita con la guerra. Non avevamo mai avuto in casa una persona che qualche giorno prima doveva scappare dalle bombe o chiudersi in bagno e pregare che non le cadesse il palazzo in testa.
Ljuba ci ha raccontato di come la guerra arricchisce i ricchi e impoverisce (o ammazza) i poveri. Ci ha detto che una pensione media ammonta al momento a circa cinquanta euro al mese, ma per comprare un pacchetto di caffè e un detersivo ce ne vogliono quasi dieci. Ci ha detto che gli aiuti umanitari che arrivano dall’Europa vengono depredati da chi li gestisce, e nelle case giunge solo poca roba, scadente.
Ci ha detto che la classe dirigente che governa il paese se ne va in giro per l’Europa e non ha fatto un giorno al fronte, mentre la gente normale muore come muoiono le mosche. Ci ha detto che la corruzione è altissima, che il presidente è un mezzo matto fanatico ma che in questo momento vede più facile una sorta di “commissariamento europeo” del paese che una rivoluzione, perché le persone migliori sono andate via e l’apparato che tiene stretto il potere ha campo libero, nonostante lo scontento generale. La madre di Ljuba ha interrotto i rapporti con la sorella, che se n’è andata in Russia e ora dice che gli ucraini sono tutti nazisti. Ljuba ce l’ha a morte con Putin e con i potenti filo-russi.
Nonostante tutti i casini della sua vita, Ljuba riesce ancora a far sorridere i suoi occhi grigi. Ci ha fatto vedere il video di una piazza, con i palazzi distrutti e i carri armati russi abbandonati sul marciapiede, pieni di scritte fatte in vernice o a cera. Dice che quella enorme piazza non l’aveva mai vista vuota prima, in vita sua. E in quel video in effetti non si vede e non si sente nessuno.
Ljuba chiama la mia compagna “bambolina”, ed è contenta quando ci sediamo in cucina e prendiamo insieme il caffè. Dopo, ognuno torna al suo lavoro. (riccardo rosa)