Qualche giorno fa ero in una scuola superiore di Pozzuoli per un laboratorio autorganizzato dagli studenti. Sono rimasto colpito dall’attenzione che hanno mantenuto durante l’ora in cui una bravissima studentessa italo-palestinese ha spiegato loro “tutto” quello che è successo nella sua terra dal 1948 a oggi. Abbiamo ragionato, a un certo punto, sulle analogie tra le pratiche di resistenza dei ragazzi e dei bambini palestinesi durante l’Intifada e quelle dei ragazzi e dei bambini napoletani durante le Quattro Giornate. Giulia (la studentessa di sopra, che fa parte della Rete studentesca di Napoli per la Palestina) ha parlato della costruzione spontanea delle barricate da parte dei civili, e dell’idea di lottare con “quel che si ha a disposizione” per resistere e per liberarsi. Però, se dall’altra parte hai davanti un esercito tra i più potenti del pianeta, qualcosa in più di pietre e fionde non guasta.
Col parabello in spalla
caricato a palla
sempre bene armato
paura non ho. […]
E a colpi disperati
mezzi massacrati
dalle bombe scippe
i fascisti sparivano,
gridando «Oh, ribelli,
abbiate pietà!».
(col parabello in spalla, canto partigiano)
A Napoli, la pioggia del 25 aprile mattina ha scrostato dalle strade l’ipocrisia di tanti che quest’anno si erano proposti di celebrare l’anniversario della Liberazione dal nazi-fascismo con particolare enfasi, “scioccati” dal fatto che a capo del governo del paese ci siano dei neofascisti (che pure non mi pare una novità di questo biennio); grazie al maltempo, qualcuno di loro è rimasto a casa a condividere i papaveri rossi su Whatsapp, esimendosi da pratiche che non gli appartengono, tipo partecipare a un corteo dichiaratamente antifascista e antisionista come quello di piazza Garibaldi.
Per qualche giorno sui giornali e in tv abbiamo visto di tutto. Dall’idolatria per il censurato Antonio Scurati ai contriti messaggi resistenti del pretino Damilano, fino alla Schlein che canta Bella Ciao ogni dieci minuti, a Crosetto che con La Russa è costretto a partecipare alle celebrazioni per i martiri della Resistenza. Sempre buono per l’occasione il nonno-partigiano Pertini, quello che gioca a carte con Zoff e Bearzot e parla di pace e giustizia sociale, e non quello, naturalmente, che tra le luci e le ombre della sua lunga vita politica ebbe l’indiscutibile merito di sottrarre l’arrestato Mussolini agli Alleati e alle frange di partigiani più accondiscendenti con questi ultimi, di prendersi la responsabilità di decretarne la morte e di consegnare il suo corpo al popolo milanese (nello stesso luogo in cui le vittime di una rappresaglia nazista nel mese di agosto erano state consegnate ai fascisti della Legione Muti, con il preciso ordine di non far portare via i cadaveri ai familiari).
Lei sa che al presidente della Repubblica, della Camera e del Senato, spetta viaggiare col saloncino, che poi è una vettura speciale attaccata al treno. Sicché vado a Milano e, quando il saloncino è fermo su un binario morto perché sto facendo colazione, il mio segretario mi dice: «Il questore Guida ha chiesto di ossequiarla, signor presidente». E io rispondo: «Riferisca al questore Guida che il presidente della Camera Sandro Pertini non intende riceverlo». Mica perché era stato direttore della colonia di Ventotene, sa? Non fosse stato che per Ventotene, avrei pensato: ormai tu sei questore e voglio dimenticare che hai diretto quella colonia, che vieni dal fascismo, che eri un fascista. Perché su di lui gravava, grava, l’ombra della morte di Pinelli. E a me basta che Pinelli sia morto in quel modo misterioso quando Guida era questore di Milano perché mi rifiuti di accettare gli ossequi di Guida. (sandro pertini intervistato da oriana fallaci, l’europeo, 27 dicembre 1973)
Una cosa a cui bisognerebbe pensare di più è la lotta, necessaria, per la salvaguardia di idee – e parole – esplosive (è proprio il caso di dirlo) dalla neutralizzazione del potere. Quando si accorse che non poteva arginare le spinte più estreme, e coerenti, della Teologia della liberazione, la Chiesa (Paolo VI e Wojtyla, soprattutto) intensificò la propria guerra ai suoi principali esponenti centro e sudamericani. E dalle Crociate in poi, insomma, la Chiesa ha dimostrato che se vuole fare la guerra sa come armarsi.
Fu uno degli eroi della rivoluzione sandinista, premiato a livello internazionale perché, da ministro e anche prima, condusse una delle più grandi campagne di alfabetizzazione che l’America Latina ricordi. Ma c’era un problema: era un padre gesuita e il papa di allora, Giovanni Paolo II, giammai avrebbe voluto un consacrato in un governo “comunista”, così lo fece sospendere dai gesuiti. Fernando Cardenal è morto però ieri da prete con tutti i crismi, perché la “scomunica” di Wojtyla fu annullata nel 1997. […] Personalità notissima al tempo della guerra civile in Nicaragua, fu sospeso “a divinis” insieme al fratello per aver abbracciato la lotta armata con la quale il comandante e poi presidente sandinista Daniel Ortega mise fine alla dittatura di Anastasio Somoza. (il secolo XIX, 21 febbraio 2016)
Insomma, per chi prova a liberarsi ogni giorno – il Garzanti ci suggerisce: “liberare, il liberarsi, l’essere liberato (anche in senso figurato)” – c’è poco da festeggiare. La guerra è sempre più vicina, le disuguaglianze sociali ci hanno riportato in quarant’anni indietro di due o tre secoli, quotidianamente lavoriamo (gratuitamente) per alimentare e non per distruggere le oligarchie tecnocratiche che ci opprimono con il nostro beneplacito. Che fare, allora?
Approfittare di quel po’ di buio che rimane, forse? Rinunciare ai nostri nomi, come fecero i nostri avi, e continuare a sbatterci la testa? Non è così lontano da noi chi ancora, in qualche parte del mondo, è pronto a morire illuminando le tenebre “con la lotta per la propria libertà”.
Avvertenza: Gianni finirà il tuffo alla fine di questa storia, che ebbe inizio trent’anni fa. (nicola palumbo, c’eravamo tanto amati)
Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.
(armando trovajoli, e io ero sandokan)
(riccardo rosa)