La vita musicale di una città passa inevitabilmente per la sua forma di diffusione concreta, l’unica possibile prima dell’avvento dell’imperante digitale. In altre parole, l’esperienza del disco quale documento per ricostruire una memoria sonora della città, in grado di configurarla alle prese con il giocattolo a dimensione acustica che ha cambiato il nostro modo di abitare il mondo a fine XIX secolo.
Recentemente ho incontrato Anita Pesce, una studiosa napoletana in grado di dare forma alla sua ricerca sul disco. Ho avuto modo di recuperare il suo testo La Sirena nel solco, edito da Guida nel 2005, un bene di prima necessità per chi si voglia mettere in ascolto della storia della musica a Napoli. Le chiedo quindi su che criteri ha impostato la sua azione: «Ho fatto ricerca sull’argomento già dai primi anni Ottanta, all’epoca le informazioni disponibili erano davvero poche. Ebbi però la fortuna di incontrare Roberto Esposito, uno dei titolari della Phonotype Record di Napoli: è scomparso di recente e voglio ricordarlo come persona di rara disponibilità e gentilezza; la Phonotype è una casa discografica che ha origini antiche, in Italia è seconda solo alla Società Italiana di Fonotipia di Milano, solo che quest’ultima ha avuto vita breve, mentre la Phonotype, nata nel 1909, esiste tuttora. Esposito mi permise di accedere all’archivio cartaceo della ditta e dunque posso dire che un primo serbatoio (di sicuro il più sostanzioso e raro, ma temo ormai inaccessibile) riguardante la storia del disco a Napoli è costituito proprio da questi materiali».
Da un lato questo tipo di fonte, diciamo di natura bibliografica; dall’altro quello propriamente musicale e concreto: «Ci sono poi i materiali sonori veri e propri, i dischi a 78 giri: bisogna saperne decifrare i dati, bisogna conoscere la storia del disco, delle etichette discografiche, bisogna saper interpretare i codici alfanumerici che caratterizzano ciascun record; i dischi come oggetti fisici sono fonti di informazioni preziose e si trovano radunati in collezioni pubbliche o private. Molti materiali “napoletani” si trovano presso l’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi di Roma (ex Discoteca di Stato), mentre un’altra raccolta importante – per quanto quasi esclusivamente digitale – è quella dell’Archivio storico della canzone napoletana della Rai». Eppure il digitale sembra aver aperto uno spiraglio. «In tempi recentissimi però, se si vuole avere un’idea dei repertori, si può esplorare Youtube. Molti collezionisti hanno iniziato a riversare i loro vecchi dischi e li hanno immessi in rete: certo, senza la bussola di una competenza pregressa è difficile orientarsi, ma almeno c’è la possibilità di ascoltare testimonianze che anche solo dieci o quindici anni fa restavano sepolte nel silenzio inerte di dischi-feticcio».
Definiti i materiali della ricerca, le chiedo di parlarmi della specificità del luogo che ha voluto cartografare: «Per capire il fenomeno della diffusione del disco a Napoli, bisogna conoscere anche il contesto, in particolare quello legato alla nascita e all’evoluzione della canzone napoletana. Se è vero, infatti, che la primissima attività della Phonotype Record (che inizialmente, e per pochissimi anni, si chiamò Società Fonografica Napoletana) prevedeva un catalogo prevalentemente operistico, nel volgere di poco tempo la casa discografica si orientò – evidentemente per assecondare la domanda di mercato – quasi del tutto sul prodotto-canzone. Com’è noto, alla canzone napoletana è dedicata una vastissima letteratura, che solo in tempi recenti comincia ad attestarsi su tagli più scientifici e meno agiografici. Nelle pieghe di questa massa gigantesca d’informazioni si possono trovare notizie utili a delineare il contesto che ci riguarda, a interpretare meglio la storia del disco napoletano ai suoi albori e del primo mercato a esso collegato».
Non è un caso se la musica colta nella sua dimensione più popolare si chiuda spesso con le canzoni napoletane, che fanno il paio con le arie operistiche nell’incontrare il gradimento del pubblico a ogni esecuzione. Ma le cose da tenere in considerazione non terminano qui. «Esiste poi una massa enorme di dati tecnici fornita dai cataloghi discografici (che siano essi originali dell’epoca oppure ricostruiti da studiosi); pensando alla canzone napoletana su disco (e non solo al disco di produzione autoctona, legato quasi esclusivamente all’opera della Phonotype), siamo costretti a spaziare nel mondo intero, con particolare riguardo alle produzioni americane (all’inizio del Novecento c’era una grossa produzione destinata agli emigranti, sia da matrici napoletane d’importazione che da matrici prodotte direttamente in seno alle comunità già residenti all’estero). In rete troviamo sia riproduzioni di vecchi cataloghi ricchissimi d’indicazioni sui prodotti napoletani, sia tantissimi elenchi, spesso relativi a singole case discografiche, che si rivelano vere e proprie miniere di notizie utili. Ovviamente, anche in questo caso, bisogna “saper leggere”…».
Il testo di Anita Pesce è una ricostruzione sapientemente divulgativa delle traiettorie della musica a contatto con la sua forma concreta. Riflesso di un’evoluzione tecnologica che troverà nel perfezionamento militare il primo fattivo sperimentatore, la storia che rende il suono documentabile mostra fertili connessioni con la storia della società. Il disco è a monte tanto della commercializzazione delle radio, quanto del correlativo mercato discografico. Partire da un principio in questo caso è possibile. Anche grazie al lavoro di Anita Pesce. (antonio mastrogiacomo)
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