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5 Marzo 2018

Editoriale autorevole. Il pastone di Monitor sulle elezioni

Riccardo Rosa berlusconi, d'alema, de magistris, elezioni 2018, grasso, italia, mattarella, movimento 5stelle, partito democratico, pisapia, salvini, tap, tav
(disegno di ottoeffe)
(disegno di ottoeffe)

Sono passate da poco le nove quando accendo la televisione e Mentana mi comunica che stanotte è finito il Novecento. Una frase già letta e sentita parecchie volte dalla Bolognina in poi, ma che trae nuovo vigore dai risultati delle politiche 2018. Mentre gli ospiti in studio annuiscono compiacendosi del tardivo epilogo del “secolo breve”, il direttore, per nulla scalfito da dieci ore di diretta, argomenta la sua linea analizzando i crolli di Partito Democratico e Partito di Silvio Berlusconi, che a oltre ottant’anni non riesce in quello che appare come il suo ultimo disperato tentativo di rinascita politica.

Il dato che emerge sembra essere però quello dello spreco. Innanzitutto di tempo, perso in questi anni per creare governi a-politici che si mantenessero con lo scotch e per creare una legge elettorale che riesce nel suo obiettivo primario: non far perdere nessuno (fa eccezione il Pd, che riuscirebbe a uscire sconfitto – o a distruggere le proprie vittorie – anche se giocasse da solo). Ancora, le centinaia di migliaia di euro spese da tutti i partiti per una campagna elettorale violenta e populista, basata per la maggior parte su programmi inattuabili, perché una maggioranza si sapeva impossibile fin dall’inizio. Programmi, da destra a sinistra, fondati su temi declinati superficialmente oltre che su questioni volutamente aleatorie. Ridimensionato è lo spauracchio della “marea nera” (Casapound: 0,8%; Forza Nuova: nemmeno quello), mentre sarebbe da considerare con maggiore preoccupazione l’avanzata di quella leghista, alla luce di una propaganda razzista e allo stesso tempo istituzionalizzata come quella di questi ultimi anni, responsabile di fatti come quelli di Macerata assai più delle scorribande dei pochi invasati mazzieri fascisti (e comunque, negli anni Settanta, l’Msi prendeva tra il 10 e i 15%); grottesche risultano dall’altro lato le scissioni del centro-sinistra, in cui non crede nemmeno più chi le fa, così come l’illusione di portare in parlamento con una mobilitazione last minute istanze e prospettive di lotta.

Tempo perso ed energie sprecate a correre su e giù per l’Italia, a mettere insieme proposte di programmi accomunati da una enorme difficoltà a essere chiari sulle poche e decisive questioni: la casa, le infrastrutture (mentre persino il governo Pd ammette che con la Torino-Lione si sono persi tempo e danaro, da Napoli in giù ancora si viaggia in “pendolino”), un’idea per la gestione dei flussi migratori che non sia quella (inattuabile, e quindi di mera propaganda) di respingimenti e fucili, le riforme di scuola e giustizia, politiche che stabilizzino il mercato del lavoro senza mettere sotto i piedi i diritti e le tutele. In questo scenario di generale pochezza non potevano che trionfare Lega e Movimento 5 Stelle, i quali, più che elaborarne di nuove, fanno da megafono alle idee espresse dalla pancia del paese, naturalmente condizionato dall’assenza di una sinistra capace di rappresentare le esigenze di gran parte della popolazione. Bastano così un paio di parole chiave a testa (che siano Flat tax o reddito di cittadinanza, unite a violente retoriche contro i migranti) a sbancare il tavolo.

Il problema è che tanto i 5 Stelle quanto il centrodestra, ora possono far poco. I due vincitori delle elezioni annunciano di non voler fare alleanze, anche se questo è tutto da vedere. Un governo tecnico o di scopo appare la soluzione più plausibile, ma anche su questo Lega e M5S sembrano fare le barricate, a costo di preferire l’opposizione: una scelta che potrebbe ulteriormente rafforzare entrambi, e condurli alle prossime votazioni in una posizione di maggior forza. Ecco che ci risiamo: non si è nemmeno finito di votare che già si pensa alle prossime elezioni. È con questa consapevolezza che il povero Mattarella si appresta a cominciare le consultazioni, dovendosi sorbire tra l’altro la spocchia dei grillini e l’arroganza di Salvini.

Tutta questa confusione, checché ne dica il compagno Mao, rende la situazione per chi ancora crede possa esistere una sinistra nel paese, tutt’altro che eccellente, anzi. Il Partito Democratico sembra dissolto, smantellato dai suoi stessi equilibrismi e da politiche di destra (su tutte il Jobs Act e il decreto Minniti); il vecchio che si è posto alla sua sinistra con l’illusione di poter assicurare il catetere alla poltrona parlamentare non solo non avanza, ma ne esce umiliato (briciole di voti per D’Alema e Grasso); il progetto alternativo partito da Napoli, costruito in un paio di mesi, conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che di Rifondazione e di tutti quelli che hanno distrutto la sinistra istituzionale del paese la gente non vuol più sentire parlare, così come il fatto che molta parte di quella extraparlamentare e antagonista preferisca rimanere tale. Difficile quindi elaborare un “che fare”, in un paese che si scopre di destra e basta (l’unione dei voti di Lega e 5Stelle supera il cinquanta per cento). Eppure la strada è sempre la stessa: provare a consolidare le opposizioni nei luoghi reali del paese, come quelli di lavoro (esempi di sindacalizzazione di base arrivano dalla logistica e da altri settori chiave), ridare slancio ai movimenti per i bisogni primari (si veda il percorso di quelli per la lotta per la casa, prima che una serie di scientifici arresti e provvedimenti giudiziari gli dessero un colpo decisivo) e a quelli che coinvolgono le persone in pratiche di autorganizzazione e di opposizione sul territorio, come è accaduto per la Tav e con mille difficoltà accade oggi in Puglia per la Tap. E poi andrebbe approfondito e divulgato il lavoro di critica culturale, che è critica ai modelli, ai linguaggi e quindi alle pratiche, assieme a quello teorico capace di dare una prospettiva a tante generose esperienze che si gettano sul campo ma che troppo spesso dimenticano la bussola a casa. C’è da sperare che questa batosta serva a scaricare una volta per tutte quei baracconi fallimentari a cui ci si continua ad accodare, liberandosi dal miraggio della rappresentanza che in questi anni si è dimostrato una corsa a perdere, tanto quando ha tradito i propri millantati proclami di rivoluzione (da Pisapia a de Magistris) che quando ha preteso che la strada giusta fosse quella di “portare le istanze” in sede istituzionale.

Un partito di destra come la Lega ha impiegato trent’anni per diventare il secondo del paese, partecipando a pieno titolo al sistema eppure dipingendosi come anti-sistema. Dal fondo toccato in questa fine postuma di Novecento bisognerà lavorare per dimostrare che il cambiamento si può costruire in modo diverso. (riccardo rosa)

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