da: horatiopost.com
Erano i giorni del fuoco quelli del mio colloquio con Mario Angrisani, il decano degli agricoltori che ancora coltivano il vulcano. L’incendio bruciava da giorni a Terzigno, e aveva colpito proprio al confine tra i due paesaggi, sulla linea che lega e separa due mondi diversi: il lato antico del vulcano, l’edificio solenne del Monte Somma, coi valloni e i boschi rigogliosi di latifoglie; e il lato giovane del Gran Cono, ripetutamente sconvolto, distrutto e rinnovato dalle eruzioni, con i versanti solari di ceneri e colate che scorrono verso il mare, le macchie, le lave, le pinete che la forestale piantò a metà del Novecento; e soprattutto la ginestra dell’Etna, l’ultima arrivata, che sta soppiantando quella leopardiana, e va rapidamente rinverdendo, forse troppo, la faccia del vulcano, come mostra il lavoro recente di un gruppo di ricercatori, coordinati dalla valente biologa del Parco, Paola Conti.
Mario Angrisani è la memoria dell’agricoltura vulcanica, e memorabile resta il reportage su di lui che realizzò Carlo Franco, arrampicandosi sugli albicoccheti fantastici del Somma, i ciglioni eroici a seicento metri sul mare, opera suprema di ingegneria, che sembra di stare a Machu Picchu.
È il paesaggio in bilico, dove Angrisani – “l’ultimo patriarca” come lo racconta Carlo Franco – coltiva le sue antiche varietà, a partire dalla mitica Pellecchiella, in un ecosistema particolarissimo, con un clima montano a un tiro di sputo dal mare, e dove in mezzo ai carpini e ai castagni trovi un boschetto relitto di betulla, rimasto lì dall’ultima glaciazione, ed è una cosa straordinaria, un po’ come incrociare un orso polare a piazza del Plebiscito.
Nei giorni crudeli del fuoco ho pensato di incontrare Mario perché se le fiamme sono figlie del sopruso, dell’abbandono sciatto delle terre, lui con la sua opera quotidiana, da sessant’anni incarna invece un modo diverso di abitare il vulcano, fatto di impegno, cura, responsabilità. Lo trovo nel suo podere lungo la circumvallazione, a raccogliere i pomodorini col pizzo, pazientemente dirige una squadra di una decina di ragazzi, sono tutti di qui, Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, lui li cerca e gli insegna il mestiere, le operazioni colturali, dalla preparazione del suolo al trapianto, le cimature, i trattamenti.
È l’ultimo giorno di raccolta, hanno iniziato alle cinque e mezza del mattino, ci sono Carmine, Michele, e Margherita, che è aggraziata in pantaloncini e maglietta, si schernisce quando scatto una fotografia, ora sono le undici passate e il sole è diventato impossibile, Mario dice che può bastare, si riprende nel pomeriggio, dopo le cinque, quando si torna a respirare.
Se le albicocche si producono in alto, dove il Somma è sovrano e non teme nemici, se non quello subdolo dell’abbandono e del fuoco, il pomodorino del piennolo del Vesuvio si coltiva giù, nella fascia pedemontana, dove i versanti gentilmente sfumano nella pianura, e inizia l’intreccio selvaggio di infrastrutture e di città, la brutta periferia circolare che in spregio a ogni legge, autorità e ragionevole precauzione, ha imprigionato il grande vulcano, e contende ancora all’agricoltura ogni terreno, ogni suolo, ogni metro quadro di spazio.
Il prodotto è prezioso, ha un prezzo di molto superiore a quello già alto del San Marzano, si coltiva in asciutta, sulle ceneri vulcaniche, e per questo ha dolcezza, sapidità e serbevolezza uniche.
I grappoli di bacche si raccolgono uniti, col peduncolo, e si impilano con maestria a comporre i piennoli, quelli tradizionali arrivavano a sette-otto chili – quelli moderni pesano un chilo e mezzo – e si appendono, come gaie lanterne rosse, sotto le alte volte dei portoni freschi di basalto, per il vermicello e il soutè delle feste di Natale.
La novità è che adesso, con il marchio di qualità dell’Unione europea e il consorzio di tutela, il pomodorino del piennolo del Vesuvio viaggia verso il nord, in confortevoli imballaggi di cartone, dalla grafica curata.
Negli ultimi tempi poi, è anche cresciuta la domanda di pomodorini pelati, sono richiestissimi da ristoranti e pizzerie: insomma, il prodotto va, in tutte le sue forme, anche perché il gusto francamente non teme confronti con il miglior pachino o datterino che sia.
Nella pausa ci trasferiamo a casa Angrisani, tra le stradine strette, in salita, del minuscolo borgo medievale del Casamale , la “Terra murata” , tutto racchiuso tra le mura aragonesi, unico abitato a trovarsi all’interno del perimetro del Parco nazionale. L’abitazione antica di Mario ha un giardino intercluso, col pergolato di uva catalanesca, ci ristoriamo con l’acqua e col caffè, oltre i tralci svetta la facciata imponente della Collegiata, la chiesa cinquecentesca di Santa Maria Maggiore.
C’è un’atmosfera di buonumore, si avverte che è l’ultimo giorno di lavoro, guardo i ragazzi stanchi, riposarsi nel patio all’ombra della vite, si vede che formano una squadra, e penso che questo è il lavoro che l’agricoltura ha creato nel Mezzogiorno, come dice l’ultimo rapporto Svimez, distinguendosi alla fine come uno dei pochi settori che è riuscito, a sorpresa, a resistere al ciclo avverso, contribuendo per una volta a far crescere il sud una virgola in più rispetto al centro-nord.
Eppure l’opera di Angrisani resta difficile. Il consorzio, nonostante le potenzialità, stenta a raggiungere dimensioni significative, al momento ci sono una quarantina di ettari appena in coltivazione, che è veramente la soglia minima di esistenza, distribuiti in novanta aziende: la dimensione media aziendale è quindi estremamente esigua, intorno al mezzo ettaro, ma la verità è che la vita degli agricoltori vesuviani è una corsa ad ostacoli, ed è contrastata, su tutti i fronti, da forze molteplici. I rapporti con il Parco nazionale, che doveva rappresentare un volano, restano complicati, c’è difficoltà a considerare l’agricoltura come un’attività conservativa del capitale naturale, a volte sembra il contrario, con una serie di vincoli e paletti burocratici che rendono la vita già difficile dell’agricoltore, a volte decisamente impossibile.
Un mutamento culturale è necessario, da noi come nel resto del paese, bisogna comprendere una volta per tutte che l’agricoltura è la colonna portante dei paesaggi e degli ecosistemi italiani, della loro biodiversità, non un’attività nemica; che è sacrosanta la protezione di specie e habitat, ma nel trend epocale di abbandono che stiamo attraversando, con le aziende agricole che continuano a chiudere e scomparire, è ugualmente importante, proprio nei paesaggi storici come quello vesuviano, conservare e sostenere l’attività di agricoltori come Mario, che il vulcano lo abitano, lo curano e lo presidiano tutti i giorni, e che dovrebbero loro stessi esser considerati, per una volta, come il valore principale da proteggere.
Al di fuori del perimetro del Parco poi, il nemico è la città, che non conosce legge, che spezza e consuma lo spazio agricolo in frammenti senza nome, in attesa di destinazione, povere dipendenze di un disordine urbano privo di futuro, ma sono cose già dette: il governo del territorio, la difesa dello spazio rurale, la promozione dell’agricoltura di qualità dovrebbero essere i punti forti di un programma per la Città Metropolitana, che ha dentro di sé posti unici come i Campi flegrei, il Vesuvio, le isole del golfo, la penisola, i frammenti cospicui di Campania felix: tutti luoghi che corrispondono a grandi paesaggi, ma anche a straordinarie agricolture.
In ultimo, c’è l’avversario probabilmente più ostico, che è l’incapacità di lavorare insieme. A partire dai prodotti agricoli del Vesuvio, le filiere integrate di qualità – dal campo alla tavola, passando per la trasformazione – dovrebbero superare l’attuale frammentazione, diventando i capisaldi della nostra manifattura ed industria, ma questo richiede la capacità per le mille piccole aziende superstiti di unirsi, cooperare, crescere insieme, in un ambiente sociale e culturale nel quale, mi ricorda sconsolato Mario, succede esattamente il contrario, dove anche fratelli e cugini faticano a fare squadra.
È il momento dei saluti, Mario prende una cesta, la fodera di foglie fresche e profumate di noce, delicatamente vi ripone i pomodorini, senza fretta, come avrebbe fatto Eumeo con Ulisse, anche se allora il pomodoro ancora qui non c’era, ma i gesti sono gli stessi, vengono da tre millenni di cura del giardino mediterraneo, da una cultura antica di ospitalità, un miracolo di civiltà che si rinnova, anche in mezzo a questo povero scombinato disordine metropolitano. (antonio di gennaro)