Multiversale è una carovana di persone dedite al nomadismo pur di incontrare gente nuova con cui confrontarsi e contesti altri in cui performare. La musica nella dimensione dell’improvvisazione noise esercita la funzione del contesto in cui calare la loro azione. La rassegna è sbarcata a Napoli nel primo fine settimana lungo di ottobre, trovando ospitalità presso il Terzo Piano Autogestito della facoltà di architettura a Palazzo Gravina giovedì e venerdì, mentre sabato sera le danze sono state concluse al Mamamù di via Sedile di porto dopo un pomeriggio trascorso al primo piano di Oblomova, in via San Sebastiano – una noise march ha accompagnato inoltre questo spostamento.
A rafforzare l’idea di conoscenza, pratica e sovversione del mezzo tecnologico il contesto festival in cui questo appuntamento musicale è stato inserito, Hack days, occasione unica per confrontarsi con lo stato dell’informatica nelle parole di chi ha inteso praticarla sfuggendo a un uso inconsapevole della stessa. In altre parole, lontano da un’idea di cultura alternativa universitaria incentrata sull’intrattenimento, questi due momenti hanno provato ad argomentare un discorso sulla condizione tecnologica con cui ci confrontiamo quotidianamente.
La giornata di venerdì è scorsa nella minaccia di una pioggia che si sarebbe scatenata solo dalla mezzanotte in poi, abbassando le temperature e incoraggiando anche i pigri all’ormai inesorabile cambio di stagione. Il Terzo Piano ha accolto un numero di persone sufficiente a far sì che la relazione non avvenisse nell’estrema distrazione, mentre il conto delle birre andava consumandosi fino a esaurirsi poco prima della fine della serata. Dalle ore 16 i musicisti in tour hanno avuto la possibilità di incontrare gli autoctoni con i quali avrebbero performato nello spazio di un sound check, riscrivendo gli spazi del piccolo e intimo laboratorio dove hanno avuto sede i concerti, mentre l’aula magna era stata attrezzata per presentazioni e dibattiti che avrebbero ritmato il pomeriggio.
In bella mostra su tavoli, che si mantengono attraverso ingegnosi sistemi d’incastro, gli strumenti – per lo più auto-costruiti – che sarebbero stati impiegati nel corso delle performance. C’è addirittura chi impiega la polvere da sparo nel suo personalissimo set, fatto di suoni concretamente acustici. In linea di principio, ogni strumento si avvale della conoscenza delle tecniche impiegate e circoscritte a un’azione che trova forma nel gioco. Non mancano poi strumenti storici quali le voci, la batteria, le chitarre. Sui banchi sono apparecchiate attrezzature che farebbero invidia a un concretista degli anni Settanta: se uno volesse fermarsi al vestiario di alcuni, la conclusione potrebbe essere la medesima; ci pensano smartphone onnipresenti nelle mani di tutti a misurare la distanza da quegli anni e a trasportarci in una pervasiva comunicazione social.
Puntuali come non mai, anzi in anticipo di cinque minuti sul previsto orario delle 20, Giuseppe Pisano e Marie Kaada Hovden inaugurano la seconda giornata di concerti. I set non hanno durata stabilita, ma vivono di assoluta estemporaneità. Sono abbastanza densi, scavano la pressione sonora con tessiture davvero gravi e difficilmente si resta immuni alla violenza dei suoni voluti e ricercati dagli esecutori. Ogni set però presenta modalità e interventi diversi, dal punk a composizioni musicali più marcatamente elettroniche, dove i cordoni di drone music (dovuti, per esempio, a un modulare) trovano modo di farsi sentire.
Intanto il pubblico cresce in modo abbastanza naturale: c’è chi non ascolta la musica ma resta nel lungo ballatoio rialzato che perimetra il cortile di palazzo Gravina – impiegato in una performance come luogo di risonanza da Ruben Ruebezahl con dei flautini e Otto Horvath con il suo trombone. L’offerta di cose da bere e da mangiare documenta l’accresciuta necessità di inserire una variante vegetariana nel menù – e come la stessa rappresenti la scelta più battuta se è vero che una quindicina di salsicce restano intoccate, mentre le verdure vanno a ruba. Quanto alle bevande, segnalo l’assenza dell’acqua.
Un banditore annuncia con un grido l’inizio di ogni concerto ricordando il nome degli esecutori, mentre non più l’applauso ma fischi e urla definiscono l’intervento del pubblico in conclusione per mostrare compiacimento. Concerto che vai, usanze che trovi. L’assenza di sottoscrizione e/o offerte volontarie segna la partecipazione all’iniziativa che viene conclusa dal dinamitardo di cui sopra con fuochi pirotecnici che colorano il cielo prima del suo intervento in forma di gocce di pioggia poco prima della mezzanotte.
Multiversale sbarca in città una volta all’anno, portando in scena un circo del noise che, dato il suo carattere estemporaneo, offre un grado di spregiudicatezza e violenza sonora con cui confrontarsi alla ricerca di qualche tratto di novità in una pratica che per il suo essere fuori dal tempo si muove in maniera nomade. (antonio mastrogiacomo)
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