Ad attestare il buono stato di forma dalla compagine musicale elettronica napoletana ci ha pensato la neonata rassegna “La digestion”, di scena sulla terrazza di un museo Nitsch che ha magicamente registrato le trecento unità nel corso della serata. E non è poco, data la sua vocazione alle presenze singolari piuttosto che di massa. Fatto sta che giovedì 22 settembre si era in tanti, forse troppi, residenti e pendolari della scena napoletana devota alla musica raramente ascoltata.
Ci inerpichiamo per salita Pontecorvo intorno alle 19 e 47, dopo aver attraversato l’affollato corridoio che mette in comunicazione piazza Bellini con piazza Dante: di scena un incontro pubblico, dunque politico, su quel che è rimasto della scuola dopo la buona scuola. C’è il sindaco. Non la municipale. Il tutto si svolge nel caos.
Essendo arrivati puntuali, non possiamo che aspettare. Giusto il tempo per ricontrollare se i relitti del performer artist austriaco siano rimasti lì dove li avevamo lasciati cinque anni fa: mentre fuori tutto cambia, lì dentro tutto resta. Segue una di quelle fasi di transizione, id est “il fino all’inizio del concerto” che nel re-incontro vive il suo prologo. Quelle fasi che se metti una telecamera fissa a riprendere, una volta che hai catturato le immagini e poi le monti a ipervelocità, pensi di aver fatto un bel fatto. Sta roba va avanti per un’ora, nella quale puoi tranquillamente rintracciare le differenze negli abiti indossati rispetto a quelli forse più in tiro del San Carlo, consapevole non siano di natura economica. C’è quello vestito come nei primi film di Moretti e quella che indossa un abito da templare. Lo scettro se lo aggiudicano due bambine, residenti, che entrano in scena col pigiama. Abbandoneranno le sedie così mordacemente guadagnate settantaquattro secondi dopo l’inizio della performance di Olivier di Placido.
Una performance agita controllando una chitarra elettrica ridotta all’essenziale, in un nichilismo tanto disinteressato quanto ricercato. La categoria del gracchiante muove le fila di un discorso che si regge su trame tessiturali con i tagli disposti a ricamarne la struttura: intensissima la pressione sonora, mentre il lavoro di scardinamento fa leva sulle variazioni di uno stesso gesto. La gente parla e se ne strafotte di quello che sta accadendo. La pressione sonora resta drammaticamente alta. La ricerca di un equilibrio così labile fa del suo raggiungimento il fine non giustificato dal mezzo. Il flusso è lutulento. La violenza voluta è coscientemente sporca. Fin quando raggiunge nel loop una stasi che subitaneamente vira nelle sue variazioni. Forse questo il segmento più coerente. Il pubblico, sciatto, non se ne fa; continua, strenuo, la chiacchiera, che pare di trovarsi in un alveare di bisbiglii. Venti minuti veri, in cui l’esecutore ha fatto tutto quello che gli andava di fare. Non un suono di più. Non un suono di meno.
Come in ogni evento che si rispetti, l’intervallo deve durare almeno quindici minuti. Il tempo di rullare qualche canna (stavolta non a lume di smartphone), cambiare posizione in vista della proiezione, postare la presenza sui social a suon di #Kevindrumm #MuseoNitch #musicaelettronicapanoramica #finoallafine mediante una istantanea partecipo-documentativa. Lo sfondo del cicaleccio come densa nube di suono in cui siamo avvolti risulta in primo piano.
Tutto pronto. Il pubblico si riposiziona per non intralciare il fascio di una proiezione che, a cura di B/N, ha optato per il ritmo come scelta linguistica del montaggio. Resta da interrogarsi su cosa c’è stato, dunque cosa è stato fatto dopo Anemic Cinema nel panorama della videoarte. La qualità del suono tattile proposto dall’artista statunitense meriterebbe altra fortuna che non la ricezione nella più completa distrazione, per giunta fastidiosa, di un pubblico trovatosi lì per partecipare all’evento, non per esserne parte. I suoi gesti sono densi, intensi: attenti. La pressione sonora è variabile, spesso splendidamente bassa rispetto al contesto: la tessitura mediobassa che la anima consta sempre meno di battimenti fino all’inserimento di fasce di rumore ben controllate mentre sale la pressione acustica. Il visuale passa da linee di taglio a luci intermittenti. Il pubblico trova pace per quattro minuti, quattro, permettendoci di apprezzare la davvero ottima qualità del suono. La tendenza dronica domina le variazioni mentre la trama si inspessisce di nuove fila che portano alle alte frequenze. Vibra un po’ tutto, intorno. Tutti hanno gli occhi appesi al visual: pubblico mio, quanto sei bello. Intensità e mutazione ritmica dei materiali: il gesto è così coerente che lo spazio di un minuto è quasi niente rispetto al fluire del discorso musicale. I battimenti vengono proposti come inserti nelle fasce di suono: la gestualità dell’artista è di rara potenza, quasi zen nella cura. I nuovi gesti entrano inserendosi armonicamente nelle pieghe. Ciò non significa che il pubblico possa placarsi. I gesti, minimi, diventano dalla pressione sonora meno incisiva. Unico momento in cui la disposizione audiovisuale diventa veramente coerente, giocando con l’area di un rettangolo sempre più piccolo. Il cicaleccio quasi si sovrappone. Poi si fa sentire, nuovamente, con gesti circolari che a ogni circonferenza scalano i db. Cambiano di ritmo. La variazione è dappertutto. Non c’è coerenza della scelta, certo. Eppure non manca il groove.
Il visual inizia a giocare con colori, tenui, che si prendono tutto lo spazio della proiezione, fino a illuminare gli astanti con la logica dell’intermittenza. Mentre una corda dell’intreccio sonoro viene a mancare, l’altra stimola una riflessione sulla natura del dronico interrogato nella sua natura ritmica, frequenziale, sonora. Fino a un caotico mischiarsi degli elementi, che sebbene ridondante, cambia proprio la poetica in atto. Sembra comportarsi come un numero decimale la cui mantissa è in continuo divenire. Il materiale si fa diversificato, mentre si alternano le frequenze. Dagli echi computazionali, una sorta di ululato fa da filo che cuce il dispositivo performativo. Questo il secondo segmento, che si ripete a un ritmo sempre più incessante. E tira avanti così per cinque minuti, come se qualcuno annegasse tra bolle di sapone digitali. Ricompare la tessitura, che resiste mentre solo l’ululato resta a farle compagnia. Il terzo segmento è accompagnato da un vento leggero e fresco, coerente con il nuovo segmento dronico che nella sua azione scava le basse frequenze facendosi sempre più profondo. La vibrazione la puoi toccare.
Figo che la terrazza fosse piena. Ma era quasi scontato. Chissà se è più interessante la musica raramente ascoltata proposta o la ricezione del pubblico che ne ha fatto da cornice. Il terzo segmento, quello di chiusura è stato davvero il più ignorato; eppure la gente applaude un poco. In vero, nessuno chiede il bis, canonica variazione al cerimoniale del concerto musicale. Si accendono le luci. Il posto è libero dal suono elettronico e accertiamo così la vera natura dell’evento: l’importante è partecipare. Sono le 22 e 53. Lasciamo il pubblico intento ad abboffarsi di parole, mentre scappiamo a mangiare qualcosa. (antonio mastrogiacomo)