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5 Luglio 2016

I luoghi della musica. Murayama e Garcia al Riot Studio

(disegno di chiara tirro)
(disegno di chiara tirro)

La mattina del 19 giugno, un ragno, che con la sua indefessa attività di musicista e agitatore di contesti musicali tesse intorno alla classe di elettronica del conservatorio la ragnatela delle possibilità in cui restare intrappolati, ci contatta con il seguente messaggio: “Ciao ragazzi, volevo segnalarvi il concerto di stasera di Saijiro Murayama e Miguel A. Garcia al Riot Studio. Murayama è un musicista non ortodosso che esplora il rapporto tra suono, spazio, silenzio e azione in una dimensione di ascolto che definirei quasi zen”.

Niente di meglio per abbandonare l’angosciante tribuna politica che si consuma sui social network dove si incita alle urne data la scarsa affluenza – come se si trattasse di un referendum. È noto il seguito, seguito da genetliaco e onomastico per il rieletto sindaco. Il messaggio continuava così: “Tra l’altro ha lavorato con altre menti brillanti della musica elettroacustica come Lionel Marchetti, Jean Luc Guionnet, Eric La Casa, Axel Dorner, Ignaz Schick, ecc. e ha pubblicato sulle più rinomate etichette di musica sperimentale. Godetene se siete a Napoli”.

Raccolgo l’invito. La serata è preceduta dalla pioggia pomeridiana, che ha il merito di riportare alle urne chi aveva preferito il mare. Passeggiare in una Napoli sfasata di stagione è davvero rinfrescante. Raggiungo il Riot a giochi iniziati, perdendo l’opening act curato da Francesco Gregoretti alla batteria e Maurizio Argenziano alla chitarra acustica. Insomma, arrivo nell’intervallo. E devo dire che l’affluenza è davvero buona: trovo un bel po’ di persone intente a scambiare le immancabili chiacchiere pre-concerto, nonché un mio compagno di classe, con famiglia a seguito. E ho finalmente la possibilità di chiacchierare anche io.

Il concerto inizia alle dieci. In realtà dico una fesseria, perché se è vero che i musicisti iniziano a performare intorno a quell’ora lì, è vero anche che il pubblico riesce ad assicurare la condizione sonora adatta per la fruizione del concerto almeno cinque minuti dopo il primo suono fatto vibrare: chi prende posto, chi per muoversi produce scricchiolii, chi tossisce, chi si guarda pure intorno…

Il lavoro del duo sembra teso alla creazione di un clima di intimità. La differenza dei corpi in scena palesa le rispettive origini geografiche. Saijiro Murayama canta e incanta: suona il rulante, dapprima elaborando una trama tessiturale, spostandosi poi verso una logica in cui la costruzione del suono si misura nella differenza del gesto che produce il ritmo, in cui attacco e decadimento sono due diversi e riconoscibili momenti del lavoro percussivo. Gli interventi dell’elettronica sono efficaci e modulari nella loro disposizione. Inizia poi un intenso dialogo tra la voce e l’elettronica, in cui il percussionista fa da speleologo, sondando la complessità dell’apparato fonatorio, mostrandone traccia nella mimica: sono dei suoni che vengono da lontano, controllati a occhi chiusi con una cura da mozzare i padiglioni auricolari, in un lavoro dalle suggestioni tattili. Passiamo da un vocalizzo a una vibrazione – come di un cellulare che entra in risonanza con l’impianto – che diventa la cifra stilistica del segmento performato. L’intreccio tra voce e percussione (mentre un’infaticabile elettronica sostiene l’azione sonora) struttura sempre più quello che è un flusso di improvvisazione fatto di regole ben precise imperniate sulla durata dei segmenti. Tocca all’elettronica dominare la scena, guadagnare l’attenzione con interventi che, con la loro forza decostruzionista, che fa leva su un’azione di contrasto, costruiscono un clima di curiosità nel quale sprofonda l’ascoltatore, incerto sull’esito di un segmento che si chiuderà con un suono – quasi un ronzio – che permette alla voce di ricucire la trama sonora.

Abbiamo superato la metà del concerto e ci avviamo verso la sua conclusione. La ripresa è davvero minimale: ricorda l’avvio, quando le spazzole levigavano la circolare pelle del rulante prima che venisse piegato alla percussione. La composizione si stratifica e assume le sembianze di un climax. Fino ad arrivare a quel momento in cui interno ed esterno si mixano e accrescono la coerenza della performance in atto: un aereo taglia il morbido cielo sopra palazzo Marigliano e l’eco del suo passaggio non è un suono altro – la relazione tra processo sonoro e paesaggio sonoro (indiscutibile a Napoli) lavora per affrancarci da ogni possibile chiusa. Il gesto seguente, nella sua circolarità, finalizza un loop intramezzato da rari interventi dell’elettronica, che procede efficacemente nel realizzare la scenografia entro cui il performer giapponese si muove. Un solo squillo di un telefono fisso, nella stanza accanto, si inserisce nel flusso sonoro, in un momento in cui la dimensione s’era fatta più intima, preludio al segmento conclusivo. L’archetto sul piatto scolpisce il suono-durata; l’elettronica interviene, dialoga, riposa, riprende, rafforza, esalta la poetica dell’interprete nipponico, che viene da un’altra era dello spirito, dove il micro e il macro si incontrano per diventare qualcosa di leggero, eppure devastante.

Seijiro Murayama e Miguel A. Garcia, due delle figure di spicco dell’improvvisazione elettro-acustica non-idiomatica, praticano una “improvvisazione su durate fisse”, creando una composizione istantanea piena di pathos, in cui i suoni dialogano con i corpi dei musicisti, i loro limiti, la loro tensione, in un’esperienza sonora allo stesso tempo rigorosa, poetica ed emozionante. Bello, alle volte, poter restare intrappolati nella ragnatela dei suoni. (antonio mastrogiacomo)

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