Che la musica dal vivo possa ridursi allo statuto del rito è fuori discussione, soprattutto quando questa formula si reitera pedissequamente nonostante la diversità delle esecuzioni in gioco. Che venga proposto un quartetto di Boccherini, un piano solo da Bill Evans o un’improvvisazione di musica radicale, la partecipazione del pubblico nell’applauso chiude ogni evento che possa dirsi musicale, a dimostrare il peso di un’abitudine che rintraccia nell’inerzia la sua ragion d’essere.
La sala Chopin ospita con cadenza quindicinale un appuntamento musicale: una vetrina per giovani – e non – studenti/musicisti che hanno l’occasione di confrontarsi con un pubblico di affezionati che devolvono con gioia una fetta dei propri pomeriggi alla devastante forza – di agostiniana memoria – dell’inafferrabile suono. Mercoledì 4 maggio scorso, alle ore 18.00, a Palazzo Mastelloni (piazza Carità 6), presso la ditta Alberto Napolitano pianoforti per i “Pomeriggi in Concerto alla Sala Chopin” dell’associazione Napolinova, si è tenuto il recital del duo formato da Pasquale Ruggiero (pianoforte) e Fabio Cesare (sassofono). Entrambi vantano una formazione e un curriculum avvincente: studi a pieni voti in conservatorio e numerosi premi internazionali. Meno di cinquant’anni in due per un pubblico che faceva almeno cinquant’anni anni di media. Uno stato delle cose valido tanto nel micro quanto nel macro: avete presente il pubblico che riempie il San Carlo?
Il programma è ben assortito: la presenza del sassofono restringe la cronologia a un repertorio per altri strumenti più vasto e rintracciamo da un lato brani originali per sassofono, dall’altro trascrizioni; fanno capolino dei pezzi ad solum, a spezzare la continuità del recital, nei quali poter registrare il talento dei due giovani esecutori. I musicisti si limitano a suonare senza guidare il pubblico negli ascolti, senza contestualizzare le scelte adottate, assecondando il paradigma del musicista muto che parla attraverso la sua musica. A ogni modo, data la piena aderenza al rituale, in sala non se ne è avvertita la mancanza.
Pasquale Ruggiero è gentile nel tocco, elegante nei movimenti, presente col corpo durante l’esecuzione, attento nell’accompagnare l’amico Fabio nei brani in duo; a dirla con Goldman, l’autore di intelligenza emotiva, lo vediamo in azione nel flusso creativo, in uno stato di quasi trance che lo accompagna nella performance. Omaggia l’intestatario della sala suonando magistralmente la Ballade di Chopin n. 3 op. 47, facendo finanche scendere una lacrimuccia a una signora in seconda fila, toccata dall’esecuzione. Il sassofonista, Fabio Cesare, dimostra di essere davvero in forma sullo strumento: dotato di una tecnica raffinata, si muove con agilità su tutta l’estensione del sassofono sfruttando con sapienza la respirazione continua che gli permette di non interrompere mai il discorso musicale. La sua scelta di eseguire un brano decisamente contemporaneo, Maï di R. Noda, forse non viene apprezzata fin troppo dal pubblico, che pur ne riconosce la bravura ma non si trova a suo agio tra intervalli microtonali, glissandi tra le note ed effetti quasi rumoristici. In questi casi emerge la distanza tra il pubblico contemporaneo e una prassi così attuale da non essere ancora registrata come tradizione; in cui dunque, è più difficile non solo riconoscere, ma anche riconoscersi.
Il concerto scorre rapido fino agli ultimi interventi. Vengono eseguiti due brani di Astor Piazzolla: Close your eyes and listen e Years of solitude. Fabio prende tra le mani un sontuoso sax baritono (fino a questo momento aveva tra le mani un sax contralto) e prende gli ascoltatori per le orecchie ad ascoltare melodie dal sapore caldo, intimo e avvolgente, evocando un timbro che per molti degli astanti doveva essersi fermato a Gerry Mulligan. Sono i brani che avvicinano definitivamente le parti in gioco, pubblico e musicisti. Emerge chiaramente la natura del sassofono, che ha fatto di un timbro suadente e possente il suo segno di riconoscimento rispetto a strumenti relegati a una dinamica a più ristretto giro di intensità – pensate agli archi, su tutti, come retaggio culturale ottocentesco.
Dopo l’esecuzione conclusiva di Pequeña Czarda composta da Iturralde, vibrante brano mediterraneo che spazia tra i veloci virtuosisimi tecnici e le intime melodie che ne spezzano la trama, il duo si allontana dalla sala. Giusto il tempo per beccarsi quegli applausi che annunciano il ritorno in campo a dar vita ai tanto attesi e sempre concessi bis: un ultimo abbraccio prima di salutarsi. Decidono per un mix che richiama gli ultimi autori eseguiti, in flusso per lo più improvvisativo che si conclude con un Libertango eseguito ad altissima velocità: un premio per il pubblico presente che finalmente ritrova un brano che può davvero facilmente riconoscere. Quanto la nostra cultura musicale passi attraverso gli spot pubblicitari è altra questione, di certo non neutra ai fini dell’evoluzione della funzione della musica. Fatto sta che il triplo inchino mette fine al concerto: i musicisti ringraziano, il pubblico applaude e pian piano abbandona, soddisfatto, la sala. In fila indiana, mi accodo. Ah! Per fortuna che c’è la musica. (antonio mastrogiacomo)