26316. Lo ricordo ancora, dai tempi in cui lo formulavo. Una quarantina d’anni fa. Era il numero di telefono del centralino degli uffici del personale non viaggiante di Napoli Centrale. Era il periodo post-terremoto, quando migliaia di ragazze e ragazzi iniziavano a vivere la novità di stare a casa di mattina per effetto dei doppi turni scolastici, una misura emergenziale causata dalla ridotta disponibilità delle aule, cui durante tutti gli anni Ottanta ci saremmo lentamente assuefatti, andando a scuola tre volte alla settimana di mattina e tre di pomeriggio (a quei tempi il sabato era scolastico, per usare quest’aggettivo in un modo che è esso stesso diventato desueto).
26316. Con l’indice della mano destra imprimevo cinque giri di giostra alla rotella del telefono di bachelite verde scura che pareva un soprammobile, là sullo stipetto dei medicinali e dei casalinghi fuori la veranda della cucina. E mi pareva di mettere in fila i numeri della combinazione di una cassaforte, che si apriva all’improvviso quando, dall’altra parte, sentivo la solita parola da quella voce roca, e che per nulla al mondo voleva vendersi più brillante di quanto fosse: «Ferrovie». E io, di rimando: «Per piacere, il 2737». Badando al sodo e senza parole di circostanza, il centralinista faceva squillare il telefono sulla scrivania di mio padre. Se non era domenica, ogni mattina dovevo salutare mio padre prima che le nostre giornate si dividessero. Era un bisogno ottuso. E dunque insopprimibile. Se c’era scuola, la cosa andava da sé, ma se la scuola era di pomeriggio a volte me lo perdevo, lui usciva e io ero ancora a letto e allora, calcolando occhio e croce il tempo che con la 127 ci voleva da Fuorigrotta all’ufficio approvvigionamenti di Napoli Centrale, valutavo a che ora comporre il 26316 per essere certo che, smistato al 2737, avrei potuto salutare mio padre in persona.
Per lunghi anni, al centralinista di Napoli Centrale cui ho più o meno regolarmente telefonato tra le otto e mezza e le nove del mattino, ho sentito pronunciare senza eccezioni di sorta solo la parola “ferrovie” e questo anche quando il numero cambiò in 283200. Adesso ci voleva un giro di rotella in più e quel doppio zero alla fine annunciava una rete di distribuzione interna più flessibile e capillare, ma queste cose al momento erano state arginate dai pugni sul tavolo di qualche vertenza sindacale e, almeno fin quando ebbi bisogno di telefonare a mio padre per dargli il saluto che mi era sfuggito a casa, trovai sempre la burbera, ma rilassante accoglienza dell’usata esclamazione: «Ferrovie!».
Mi giro e mi rigiro sulla sedia pensando che una persona senza volto e senza nome, da cui per anni ho sentito pronunciare sempre e solo un’unica parola possa restare così ancorata alla mia memoria, e che questa persona abbia potuto essere così speciale nell’esercizio delle sue funzioni, ossia svolgendo un lavoro che di lì a pochi anni, come molte altre mansioni della pubblica amministrazione, sarebbe stato messo all’indice, imputato di costituire attività parassitaria, antieconomica, insostenibile in un orizzonte di necessaria razionalizzazione dei costi. E tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta furono centinaia di migliaia i centralinisti e gli uscieri, le dattilografe, i segretari, le diurniste e gli avventizi che lo stato mandò anzitempo in pensione con la solenne promessa che nessuno li avrebbe mai più rimpiazzati.
Oggi, dopo altri trenta o più anni da quel periodo in cui si cominciò a inneggiare alle privatizzazioni, il mercato del lavoro, nella sua tirannia, induce a parlare di “posto fisso” come di una specie di idea platonica, un puro ideale regolativo, dopo che per lungo tempo il discorso pubblico dominante lo ha spogliato di ogni attrattiva in termini di riconoscimento sociale. Come se chi facesse un lavoro prevedibile e ripetitivo dovesse quasi vergognarsi di guadagnarsi il pane in questo modo.
E invece, ancora negli anni in cui sono stato ragazzino, grazie all’imposizione di prassi di corporativismo sindacal-dopolavoristico che di lì a poco sarebbero state buttate alle ortiche, chi come me era figlio di ferroviere sapeva farsi largo con o senza ironia, avocando a sé il rispetto di sodali per altre ragioni ben più altolocati, nell’atto di tirar fuori dal portafogli il mitico BK.
Il BK era un lasciapassare ad personam emesso in favore dei coniugi e dei figli di ferrovieri, davanti al quale, su qualsiasi treno delle patrie reti ferroviarie, ogni controllore, quasi mai lasciandoselo consegnare per visionarne la validità, di norma faceva un impercettibile gesto d’aver capito e lesto proseguiva oltre. Addirittura c’erano controllori che erano soddisfatti alla sola pronuncia della sigla BK, anche se troppo lassismo generava fastidio al mio egoismo corporativo, perché non mi stava bene l’idea che un qualsiasi figlio di non-ferroviere, messo per vie traverse a parte dei possibili buchi nelle maglie dei controlli a bordo, provasse ad arrogarsi un privilegio che non gli toccava.
E a me imberbe ragazzino che girava in treno per scoprire ignoti pezzi d’Italia, quel movimento del capo del controllore regalava ogni volta un senso di agnizione metaferroviaria, era ogni volta il rinnovato benvenuto in un mondo di promesse mantenute, in cui si sa che tanto mi dà tanto. Come quando a telefono mi bastava dare il numero giusto al signore che diceva solo «Ferrovie», per arrivare alla soluzione del problema.
Fino al 1990 circa, la validità del BK valse fino a ventidue anni per i figli maschi e fino alla fine del nubilato per le figlie femmine. Poi questa distinzione fu giudicata discriminatoria e il limite d’età per viaggiare gratis equiparato a venticinque anni per tutti i figli di ferrovieri. È di certo stucchevole commentare regole decadute da almeno trent’anni, eppure mi domando cosa penserebbero oggi le figlie dei ferrovieri se si offrisse loro di viaggiar gratis sui treni italiani fino alla fine del nubilato: il tenore generale del paese in cui oggi crescono le indurrebbe a farle sentire offese nella propria identità personale o piuttosto a rallegrarsi di un regalo che resta pur sempre fantascientifico nella percezione di chi oggi ha meno di trent’anni? E restando nel fantascientifico, se le figlie dei ferrovieri oggi si vedessero accordati viaggi in treno gratis finché nubili, una pubblicistica contraria quali argomenti utilizzerebbe? Quelli dell’insostenibilità economica o quelli dell’irricevibilità culturale di un simile bonus? Si sperimenterebbe forse la via, così spesso prediletta in Italia, di salvare le apparenze dietro la foglia di fico di parole più moderne che nascondano pensieri fuori corso eppure ancora dominanti? Se sì, allora ne andrebbe solo di cambiare la parola “nubile” con “single”.
Ma poi, dietro la foglia di fico delle parole, che percezione aveva di se stessa la donna che trent’anni fa viveva in una società che ancora la chiamava nubile? Si percepiva più o meno libera della donna che la società oggi chiama single? Resto nel dubbio, sebbene mi sembri chiara una tendenza a togliere peso e rappresentanza alle rivendicazioni di diritti individuali, di genere e di categoria, là dove le condizioni economiche sono più sofferenti e dunque i rapporti di forza più facilmente sperequati.
In fondo da bambino vivevo ancora in un mondo in cui il più ricco non aveva ancora messo in programma di imporre al povero il senso di frustrazione per la sua condizione di povero o se stava iniziando a farlo, spesso c’erano ancora strumenti come il BK che offrivano compensazioni e permettevano di preservare appetibili ambiti d’azione. Deve essere stato per questo che ancora mi bastava di formulare la combinazione esatta sulla rotella del telefono di bachelite, spifferare a un complice senza volto quale altra combinazione doveva attivare per me e finalmente ottenere che desiderio e realtà tornassero in equilibrio. (pasquale guadagni)
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