Domenica sera, Fuorigrotta, Napoli. Il boato che accompagna la notizia della seconda rete degli azzurri a Udine arriva praticamente in contemporanea con quello dovuto all’uscita sul palco della coppia Ricciardi-Granatino. Siamo al Palapartenope, ore 22.30 circa. Dopo aver assistito a più di un’ora di partita – trasmessa grazie a due maxischermi – il malumore del pubblico per aver perso le immagini del pareggio (le luci si erano spente pochi secondi prima del sinistro di Cavani) si volatilizza in pochi secondi, con il riaccendersi epilettico dei fari e l’inizio della musica. Era per Franco Ricciardi e Ivan Granatino, d’altronde, che quasi tremila persone si erano radunate nel vecchio Palatenda, per assistere a uno spettacolo che aveva per i fan tutte le caratteristiche del “grande evento”.
C’erano Franco e Ivan, il duo che ormai costituisce l’anima del Cuore Nero Project, l’etichetta discografica creata da Ricciardi e con la quale il cantautore nato a Secondigliano prova mettere a disposizione dei talenti più giovani la propria esperienza, «e soprattutto il tempo necessario per sperimentare strade diverse». C’erano gli ospiti, quelli che con loro hanno collaborato nell’ultimo album Zoom, e nel Mixtape uscito a inizio anno. C’era il pubblico, nonostante la concomitanza con la partita del Napoli. E c’era, all’esterno del Palapartenope, il frenetico affollarsi di venditori di qualsiasi tipo, con una quantità di merchandising ufficiale e (soprattutto) non, tale da riempirne un altro, di palazzetto.
All’interno, in ogni caso, il pubblico (famiglie al completo, vecchi fan inossidabili con fascette sulla fronte e frontini intermittenti, ma soprattutto ragazzi tra i tredici e i diciotto anni) dimenticava in fretta la partita, e cominciava a scaldarsi con le canzoni più richieste. Si parte con Stand-by, pezzo che nell’album è cantato da Ricciardi e Granatino insieme ai Co’Sang, ma che dopo la rottura tra i due rapper napoletani deve fare inevitabilmente a meno del contributo di uno dei due, in questo caso ‘Nto. La folla apprezza ugualmente, e si scatena subito dopo con La mano de Dios, una canzone che sembra aver affiancato nella testa di tanti napoletani i classici dedicati dagli artisti della città al numero dieci argentino.
L’album è ricco di collaborazioni, ma nonostante l’alternarsi degli ospiti, almeno nella prima parte il ritmo del concerto è serratissimo. Ricciardi si esprime alla grande, anche fisicamente (tanto sul palco come al guardaroba, dal momento che si contano almeno quattro cambi, tra giubbotti di pelle, jeans a vita bassissima, maglie di vario genere e occhiali da sole, sempre davanti agli occhi), e trae vantaggio dalla presenza sul palco di Granatino, una incontrollabile scheggia impazzita che salta, canta, suona la chitarra, balla, urla e carica il pubblico.
Per chi aveva già assistito a un live di Franco Ricciardi, in realtà, è proprio Ivan la vera sorpresa: un ventisettenne letteralmente fuori controllo, forse proprio perché vive lo spettacolo dal vivo così come andrebbe vissuto. Dopo un’ora di musica, quando qualche piccolo colpo si comincia ad accusare, l’arrivo sul palco di Capone & Bungt Bangt rilancia il ritmo, confermando l’impressione, frutto anche dell’ottimo lavoro dei musicisti, di star ascoltando qualcosa di molto simile al miglior rock disponibile in città, e forse non solo.
Lo spettacolo va avanti, mischiando registri, suoni, personaggi, e pubblici diversi: si passa dal mini-reading di poesia di Peppe Lanzetta, che per Franco Ricciardi scrisse anni fa 167 – quando parlare di Scampia andava un po’ meno di moda rispetto a oggi – e che riesce a coinvolgere realmente la gente, alle note del rapper senegalese Thieuf, che dopo il pezzo Te la canterò, cantato in Zoom con Granatino e Ricciardi, è accolto a Napoli alla stregua di un divo locale. Proprio questo perenne mescolarsi tra rock e hip hop è l’aspetto più interessante del concerto, che rende inevitabile una riflessione sul lavoro dell’intero progetto Cuore Nero. Osservando il pubblico storico di Ricciardi, e i ragazzini che difficilmente si spingono (con tutto il rispetto per la categoria) oltre il neomelodico, snocciolare a memoria testi rap di Clementino o del milanese Guè Pequeno, e ballare sui ritmi di una chitarra elettrica, rende l’idea di come il lavoro di Ricciardi stia aprendo una fascia di città verso direzioni, generi, voci, suoni dai quali molto spesso questa resta (incolpevolmente) esclusa. Niente di più vero di quel che ha raccontato lo stesso Franco Ricciardi nel backstage, parlando del rischio, presente nelle sue continue evoluzioni, di perdere qualche pezzo di pubblico per strada: «Questo non accade praticamente mai, perché chi mi segue dall’inizio sa che album dopo album sono portato a cambiare tutto, a ripartire mischiando generi diversi, non rimanendo mai fermo su un personaggio o su uno stile. È soprattutto per questo che ho deciso di dar vita a un’etichetta mia, perché questo ragionamento, che è un po’ una scommessa ogni volta, non piaceva tanto ai discografici».
Quella che poteva sembrare una frase fatta, da conferenza stampa, si è rivelata invece perfettamente aderente alla realtà durante il concerto. Uno show durante il quale la gente ha cantato, ballato e si è divertita per quasi tre ore, raccogliendo quell’energia (vocabolo, mi rendo conto, tremendamente abusato in questi contesti, ma mai come in questa circostanza ineludibile) che Ricciardi e la “mina vagante” Granatino hanno tirato fuori. All’uscita, mentre ancora qualche under sedici si attardava a comprare il cuscino con stampato sopra il volto del suo beniamino, o la catena con il simbolo del Cuore Nero, restava se non altro la consapevolezza di aver ascoltato una musica e un personaggio che meriterebbero di essere presi assolutamente sul serio, molto più di tanti altri che la città alfabetizzata continua a vomitarci addosso con quel pizzico di fastidiosa presunzione che la contraddistingue. (riccardo rosa)
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