Giovedì 20 gennaio 2011 alle ore 12 nella sala Arengario del Tribunale di Napoli, piazza Cenni, sarà proiettato in anteprima nazionale il film documentario Il loro Natale, di Gaetano Di Vaio. (Potete leggere qui la recensione) Da Poggioreale alla casa circondariale femminile di Pozzuoli, storie di vite spezzate, file interminabili, espedienti per andare avanti. Il documentario riprende i percorsi di alcune donne che per Natale sperano di riavere a casa i loro cari.
Questo articolo sul carcere di Poggioreale è apparso in versione più ampia su Napoli Monitor del dicembre 2009.
L’imponente portone del carcere di Poggioreale separa i rumori della strada dalla vita di migliaia di persone. Nei padiglioni che portano il nome di città scelte in base a una improbabile geografia della pena (Italia, Napoli, Salerno, Avellino, Torino, Venezia, Milano, Roma) in celle che ospitano fino a quattordici persone, un solo bagno, una doccia forse, sono duemilacinquecento gli uomini che scontano una pena, ma non tutti una condanna. Perché di certo è una pena stare qui, anche se l’ottantotto per cento dei detenuti è in attesa di una sentenza definitiva e, quindi, “tecnicamente” una condanna ancora non ce l’ha. In questo carcere, a cui fanno da sfondo le torri a vetro del centro direzionale, “passa” una larga parte della popolazione della città e una parte altrettanto numerosa, ogni settimana, si affolla, lungo queste mura, in code interminabili per un’ora di colloquio. Lunghe file, centinaia di donne con i loro bambini, pacchi e buste di plastica, che fin dal primo mattino si dispongono in rumorosa attesa. Una scena così triste che un gruppo di deputati radicali ha chiesto, con un’interrogazione al ministro della giustizia, di «mettere a disposizione dei familiari, che a centinaia e per ore attendono nel cortile, alcune panchine e acqua potabile soprattutto per i bambini e gli anziani».
Ciclicamente questo carcere, dove vengono condotte circa sedicimila persone ogni anno, è al centro dell’attenzione dei media. E non sono solo i numerosi suicidi dei detenuti a scandire la vita di questa prigione o a renderla lugubre, ma una quotidianità pesante, fatta di ventidue ore di cella e due al passeggio, il cortile di cemento e lamiera dove a gruppi si percorrono avanti e indietro le “vasche”. Scrive Enzo: «E ora che fa caldo è una vera sofferenza. Si dice che quando stai in carcere stai al fresco, ma noi stavamo in un forno! La cella era infuocata, per un po’ di fresco ci buttavamo l’acqua in testa e basta. La notte, ci chiudevano pure la porta di ferro (il blindato) e non si respirava più. Senza corrente d’aria era da impazzire. E non riesci a dormire, ti giri sulla branda che diventa sempre più bagnata dal sudore».
Questo luogo è un piccolo paese, che tra detenuti, agenti, personale civile, avvocati, familiari, ogni giorno coinvolge la vita di tre-quattromila persone. Qui, sul piano della gestione, l’unico evento significativo è stato, tre anni fa, il cambio di guardia della direzione. Dopo diciassette anni il direttore Salvatore Acerra, destinato a incarico di prestigio, ha lasciato il posto a Cosimo Giordano, direttore di lunga esperienza, la cui carriera fu bruscamente interrotta dalla rivolta del carcere di Porto Azzurro. Era, infatti, direttore dell’istituto livornese che, nel 1987, fu teatro dell’ultima rivolta penitenziaria in Italia, anzi, per meglio dire, di un tentativo di evasione con le armi di un piccolo gruppo di detenuti. Ma il cambio di direzione non ha, all’apparenza, modificato i ritmi e le abitudini di Poggioreale. La storia di questo carcere è più lunga e più forte degli uomini che si sono avvicendati nel tempo alla sua guida.
Un luogo che ha una capienza ufficiale di appena milletrecento posti e che ospita il doppio di detenuti. Qualche tempo fa, per rendere meno impressionanti le statistiche che periodicamente il ministero della giustizia pubblicava, era stato adottato il parametro della capienza tollerabile, fissata a Poggioreale a quota millecinquecento posti. Ora che la situazione è critica e le presenze hanno superato abbondantemente anche i valori tollerabili, hanno deciso, al ministero di Alfano, di non pubblicare più le statistiche sulla popolazione detenuta. E in questa fase storica, in cui l’intero sistema penitenziario italiano è in crisi, le critiche su Poggioreale provengono da fronti contrapposti e certamente incompatibili. Gli agenti di polizia penitenziaria affidano ai loro sindacati di categoria (sono ben sedici le sigle sindacali autonome) il compito di lanciare, a mezzo stampa, allarmi sulle condizioni della detenzione e sul perenne sotto-organico della polizia. È un dato che ha solo una parziale verità perché siamo il paese europeo che ha il tasso più alto di agenti rispetto ai detenuti. Questi allarmi hanno prodotto comunque il risultato di qualche trasferimento per alleggerire la pressione. Più difficile sopperire alla carenza di figure sociali. Su ventotto educatori in organico ne sono presenti giusto la metà, mentre gli psicologi sono a contratto. Di interpreti e mediatori culturali, per i circa duecento stranieri presenti, nemmeno a parlarne. I detenuti e i loro familiari, come sempre nella storia del carcere, affidano invece le loro proteste alle lettere che inviano ai giornali, il più gettonato di tutti è Cronache di Napoli, ma anche la trasmissione radiofonica dei radicali, “Radio Carcere”.
Scrive Mario: «Stavo nel Padiglione Napoli. In quattro eravamo in cella. Una cella piccola, che era la nostra vita. Là dentro ci passavamo tutto il nostro tempo. Tranne che per andare al passeggio, non un’ora, ma quaranta minuti la mattina e quaranta il pomeriggio. A Poggioreale la rieducazione non esiste. Passavamo il tempo a giocare a scopa con le carte fatte da noi. Le fabbricavamo con il cartone delle sigarette, sempre della stessa marca, e nella parte bianca ci disegnavamo i segni: il cavallo, il re, l’asso. Quello facevamo. Poi arrivavano le guardie e ce le sequestravano. E noi ricominciavamo».
Ancora Mario scrive: «Un altro passatempo era ’u dadariello, una specie di dama che si gioca a Poggioreale. Si fa con un pezzo di lenzuolo disegnato e si gioca usando i tappi delle bottiglie come pedine. Anche quello ci sequestravano, e noi ricominciavamo. Le docce stavano fuori dalla cella e la potevamo fare solo due volte a settimana. È poco col caldo che fa ora a Napoli. In più sono docce sporche, piene d’acqua sporca, tanto che noi ci portavamo i giornali per non prenderci malattie. E ti devi anche sbrigare a farti quello schifo di doccia. Un agente appena entri ti fa: “gioventù muoversi!”, e sbatte le chiavi sul tavolo. Una doccia schifosa di pochi secondi».
Le denunce non hanno prodotto risultati. Il governo è impegnato nell’approvazione di un piano straordinario di edilizia penitenziaria per il quale non vi sono risorse certe e che andrà a compiersi, forse, nel 2012. Un’altra delle grandi difficoltà che oggi si vivono è legata all’assistenza sanitaria. Una recente riforma ha previsto che la sanità penitenziaria fosse trasferita alla competenza della sanità regionale. A oggi, questo passaggio di competenze non è ancora completo, e ciò ha determinato un allungamento dei tempi per esami e accertamenti medici. A Poggioreale vi sono cinquecentoventuno tossicodipendenti e quarantanove sieropositivi. Ma nonostante la presenza di un centro clinico, gran parte degli esami bisogna effettuarli all’esterno.
In questo scenario, dove all’elenco di morti si aggiunge l’infinita lista delle difficoltà quotidiane (ottenere un farmaco, uno shampoo, una penna), va segnalato che alle diffuse voci da parte di ex detenuti su episodi di violenza e maltrattamenti non hanno fatto mai seguito denunce di episodi concreti né la magistratura ha mai aperto inchieste. Diversi anni fa, raccontando del regime disciplinare all’interno del carcere, un anonimo operatore raccontava di un codice di comportamento che prevedeva per i detenuti determinate posture (mani dietro la schiena e posizione di attenti all’ingresso in cella di un agente, e così via) e richiamava le parole di Michel Foucault che parlava del carcere come di «un’economia dei diritti sospesi».
Ecco, forse è vero, confrontando le narrazioni che nel corso degli anni si sono prodotte su e da Poggioreale, che questa città nascosta, ma vivamente abitata e attraversata da migliaia di persone, sembra tuttora basarsi su questo stato di sospensione, dove si determinano equilibri, rapporti di forza, regimi disciplinari che non hanno a che fare con la dimensione del diritto, almeno nel senso formale che questa parola dovrebbe avere. Perché nonostante gli allarmi, le denunce e problemi, che sono noti da anni, Poggioreale assolve a una funzione di contenitore di conflitti, disagio e marginalità buona per ogni stagione. Era così negli anni Ottanta quando di fatto era la sede delle lotte e delle faide interne ai cutoliani e alla nuova criminalità organizzata e lo è oggi, mentre si fronteggia un’emergenza penale che vede incarcerati, in larga parte, immigrati e tossicodipendenti. Perchè oggi, ma chi sa per quanto tempo ancora, Poggioreale altro non è che una città nascosta, un altrove, uno specchio in negativo dove ognuno «riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà». (dario stefano dell’aquila)