La scrittura può essere il tentativo di mettere ordine. Si può scrivere per non morire, per non impazzire, per guarire.
Ogni 25aprile, a questo proposito, ritornano in auge le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, scritte tra l’8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945, dove, appunto, la scrittura è stato il tentativo (per quei partigiani catturati dai tedeschi o dai fascisti) di dare un ordine al proprio destino, un tentativo per non morire.
Gli scritti che seguono, frutto del laboratorio di teatro e scrittura dei Maestri di Strada (a cura di Stefania Bruno, Giuseppe Di Somma e Nicola Laieta) possono considerarsi una versione contemporanea di quelle lettere, dove, seppur in maniera originale e immaginaria, si rivive quell’esperienza di un tempo breve eppure spaventosamente lungo. Ponticelli, protagonista della Resistenza napoletana e teatro di uno degli episodi che diedero vita alle quattro giornate di Napoli, rivive in questi scritti il frastuono di quei momenti raccontati nei libri di storia.
C’è un rumore in questi testi, che sconvolge l’ordine abituale delle cose, che crea disordine. In questo frastuono la scrittura prova a mettere le cose una dietro l’altra, una accanto all’altra. È una scrittura che riannoda i fili tra passato e presente. Una scrittura che non finisce mai, una scrittura per guarire. (caterina guerrieri)
* * *
Al bar non abbiamo capito bene cosa fosse successo. Siamo ritornati a casa pure perché era tardi. Riprendo il giornale che avevo messo distrattamente sul mobile in corridoio. “La Germania è una”, titolo grandissimo che ho totalmente ignorato. Mio padre me lo strappa dalle mani, guarda e vedo gioia e rammarico insieme. «È caduto, me lo sono perso».
Sì, era proprio caduto, quel filo a cui non ti potevi avvicinare, è passato nell’ago del popolo e ha ricucito una terra a metà.
«Ce vulevo sta’. Si ‘o sapevo, foss’ sagliuto», si blocca. «Nun è ca mo’ cagnano ‘e cose», riprende mio padre col suo solito tono malinconico.
«E perché no?», dico io.
«Perché ce vo’ tiempo. Mo’ secondo te simme tutt’ frat’ eh! Seh, te voglio bene, viene ‘cca. A tutte quant’ faceva comodo ‘a divisione, pecchè ce vonno cumanna’. È cchiù facile si stamm’ uno contro a n’ato, accussì staije int’ ‘e man’ e chi ce guverna».
«Embe? Nun hann’ fatto buono?».
«Comme s’era fa. Nientemeno si vulive ji’ a chell’ata parte iva fa ‘o giro r’o munno, quanno bastavano tre passi. Però ce vo’ tiempo. E sta cosa secondo me nun s’acconcia.
Gesù, ma se je pe’ ottant’anni stong’ sempe int’a’ stessa gabbia e me diceno ‘cca dint’ ‘e ‘a sta’ e sule chest’ ‘e ‘a fa, je cresco cu’ chella mentalità. Non sto dicendo che uno si deve far stare bene le cose, anzi, uno adda aiza’ sempe ‘a capa. Ca dint’ a niente te mettono a capa sotto. Però… ce vo’ tiempo. Ce vo’ tiempo». (lucia affinita)
Il frastuono delle mura che crollano riempie l’aria di polvere, tutto diventa grigio, voci, grida, urla accompagnano ombre che corrono disordinate. Non comprendo alcuni suoni, non odo voci familiari, ma l’immagine avvolta nella polvere di un carro armato è ben chiara, come la paura che sto provando. Le gambe tremano, cercano di muoversi, ma mi sembra di essere inghiottita da sabbie mobili, sprofondo sempre più giù mentre guardo terrorizzata la bestia meccanica di fronte a me. Una mano, un tocco deciso e forte. Mi trascina lontano da quell’immagine che si fa sempre meno nitida, non so dove sto andando, non so chi mi sta trascinando scendo dalle scale, entro in dei cunicoli sempre più giù. Mi manca l’aria, a ogni passo mi sembra di fare un respiro in meno, non mi accorgo che siamo arrivati, sbatto contro la schiena della persona, che ancora mi tiene stretta la mano, alzo lo sguardo, non lo riconosco ma al di là del suo corpo ce ne sono molti altri, ammassati, infreddoliti, si abbracciano, si tengono per mano, c’è qualcuno che gioca a carte con una lanterna, che insieme ad altre formano un corridoio di luci che illuminano lo spazio e tra luci e ombre qualcuno comincia a singhiozzare. (laura guadagno)
«Mamma – dice –, ma quando finiscono di bombardare? Io mi sono stancata ‘e sta’ ‘cca sotto, tengo poca pazienza!». Hanno ragione, anime di Dio! Che colpa tengono, che male hanno fatto!
«Avete saputo che è caduta una bomba a Vico Santi Apostoli? Speriamo che non è morto nessuno». «La sirena, la sirena!».
«È finito il bombardamento, mamma? Allora possiamo salire su? Proprio non ce la faccio più a stare qui sotto e poi mi prude in testa e ho fame».
«Per piacere un po’ di pazienza», dice la signora che, quando stiamo sopra, abita sotto a noi, e quando stiamo qua sotto si mette sempre vicina a mamma. Dice che le dà coraggio. La signora non ha più il marito, il figlio più grande è partito. Qui dicono che sta facendo la guerra ai tedeschi e ai fascisti, ma io non capisco più niente: i tedeschi che sparano ai fascisti, i fascisti che sparano ai tedeschi, i fascisti che non sono più fascisti.
«Mamma ma che sta succedendo?».
«Non ti preoccupare, un po’ di pazienza», mi dice la signora che ora è di fianco.
«La vogliamo fare una preghiera alla Madonna?», una voce un po’ più lontana inizia una cantilena, che io non so seguire, ma faccio gli stessi gesti di mamma e della signora a fianco.
«San Gennaro! – urla una voce tra le tante – Finalmente è finita, le bombe sono finite!».
«Mamma, ma chi ha buttato le bombe?».
«Piccire’ non lo sappiamo. Può essere gli americani, può essere i tedeschi. Qua ormai non si capisce più niente!».
Sento un suono prolungato di sirena. È quello che aspettavo, come l’altra volta. Vuol dire che è finito tutto, possiamo salire su.
«Forza andiamo! Vieni usciamo!».
Mamma mi dà la mano.
«Madonna mia! La mia casa! La mia casa non c’è più! La bomba l’ha distrutta!».
Mamma guarda le macerie, guarda me, guarda la signora che stava di sotto e che ora non sta più di sotto. (maria matrullo)
Settembre del ’43 dopo le quattro giornate.
Ho dodici anni e sono il terzo figlio di cinque.
Mio padre è partito per la guerra con Massimo, mio fratello più grande, e io sono rimasto qua nelle campagne del Cilento con mamma, Francesco, Lucia e Giuseppe.
Fino a ieri con noi ci stava pure Tonino, mio fratello più grande dopo Massimo, ma quello ha deciso l’altro ieri notte di partire per andare a Napoli ad aiutare i soldati italiani e ammazzare di botte i tedeschi. Mamma non voleva farlo andare, aveva paura, perché nei giorni scorsi a Napoli non si è capito niente, è successo di tutto e di più, e non riesco a definire se sia successo tutto quello che doveva succedere o quello che ci pentiremo sia successo. Comunque io volevo andare con Tonino pure perché io a Napoli non ci sono mai stato, ma niente da fare, non mi ha voluto portare anche se io l’ho chiesto in tutte le lingue del mondo.
Alla fine ho lasciato stare perché sennò mamma non avrebbe fatto andare neanche lui. Ieri mi sono svegliato di mattina presto, come sempre, perché i miei fratelli già litigavano, facevano a gara: chi si sarebbe svegliato per primo avrebbe perso. Solo che non si riusciva a capire chi si fosse svegliato prima, e mi sono svegliato. Mi sono svegliato e non c’era più. Toni’ però mi potevi almeno svegliare! sono arrabbiato perché qua ci manca tutto e ora ci manchi pure tu. Vado in cucina con i soliti piedi ma il pavimento sembra più freddo. Mamma è seduta su una sedia di fianco al tavolo. Mamma piange. Mi giro verso la nostra stanza non so dove devo nascondermi per sentirmi completo, protetto e stare come stavo prima, ma sai che ti dico? Tonino ci ha abbandonati a tutti quanti e a me non me ne fotte proprio, faccio la mia vita e lui fa la sua. Viviamo in una casa che non è proprio la nostra. Mi hanno detto che quando ero proprio piccolo da un’altra parte avevamo una casa bella, che aveva due piani e avevamo anche gli animali fuori. Ora fuori non c’è niente, ci siamo solo noi. Va bene così, ora la casa è più piccola con una camera da letto dove stiamo tutti e un’altra dove si cucina e si mangia, anche se a volte ci sediamo a tavola senza mangiare. C’è un solo un quadro brutto con una signora triste. Sta appeso sopra il letto di mamma. Ora la casa è più piccola ma già chiamarla casa è un passo avanti. (chiara mileto)
Le bombe hanno modificato il volto del paese, è da tanto che ci manco.
Questo congedo tanto bramato, non sarebbe mai dovuto arrivare. Sono vivo e non so come sono salvo, non so come sono qui e non so come è cresciuto l’albero di mele che avevo piantato da piccolo. I cani sono stanchi. Neanche si sono degnati di abbaiare. Le piante sono verdi e i fiori tutti colorati come stonano con la desolazione di questo tempo. Resto qui al centro del cortile di casa, ho fatto la barba, ho tagliato i capelli. Per un momento sembra che la guerra non sia mai cominciata. Mariagrazia, mia moglie è lì piena di grazia e d’amore gentile, come sempre. L’avevo lasciata con una pancia così e la ritrovo con un bambino tra le braccia, ormai cresciuto. Sembra pesare tra le sue braccia stanche. Mi passa quel bambino e io lo prendo. Mi somiglia ma non lo conosco. Lo prendo allora tra le braccia: ha gli occhi grigi di ghiaccio e quando penso di chiamarlo le parole mi si bloccano perché non ne conosco il nome e la bocca si blocca. Lui piange, strepita, gli faccio paura. Mi scappa dalle braccia e corre dentro. Lo guardo arrampicarsi sulla gonna della mamma. Mi canti Il canto che mi sa che mi cantavi? E allora mi vedo: vedo un uomo sbarbato e coi capelli laccati e con quel vestito nero della domenica. Lo vedo uscire da quella porta piccola piccola, mano nella mano a quel bambino che è scappato via. Esce pure Mariagrazia, il bambino si aggrappa ai pantaloni dell’uomo, l’uomo lo prende, lo fa volare, il bambino ride, Mariagrazia ride, l’uomo ride e vanno via. Li vedo uscire insieme, mi chiedo “chissà dov’è che stanno andando. Sono io, siamo noi”, penso, ma non nel vestito nero della domenica. Sono io, sarei stato io quel’uomo vestito di nero se solo quella dannata guerra non fosse mai scoppiata. Piango, allora le lacrime scendono, scendono, scendono e vado dal bambino, “sono tuo padre” e non so se lo sto dicendo o lo sto domandando. (salvatore cammisa)
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