È da un quarto d’ora che Ciro percorre avanti e indietro la piccola parte di palestra che non gli è stata interdetta, a bordo del suo hoverboard. L’hoverboard è una specie di skateboard elettrico in voga tra i ragazzini, una via di mezzo tra la tavola di legno a quattro ruote, i pattini a rotelle e il monopattino elettrico. Di ruote ne ha due, grosse. Si avanza sporgendosi impercettibilmente in avanti o indietro, si curva muovendo i piedi sulla pedana. Costa tra i due e i cinquecento euro. I genitori che non possono permetterselo e non sanno dire di no ai figli, fanno debiti per comprarlo. I figli di quelli che non possono permetterselo e basta, guardano i ragazzini che ce l’hanno con ammirazione e chiedono di fare un giro. Ciro sta in silenzio, getta un’occhiata distratta ai giocatori di basket che provano gli schemi, fa qualche acrobazia girando su se stesso.
Il parquet della palestra, più che rovinato, è vecchio. L’edificio è la ex Copernico, nel Rione Traiano, una scuola costruita con i fondi del dopo terremoto, rimasta aperta per qualche anno e poi abbandonata. Dopo un’altra mezza dozzina d’anni, il comune di Napoli ha indetto un bando per assegnarla, ma si fa fatica ad avere notizie ufficiali del suo destino. Sembra che gran parte dell’edificio verrà gestito da un’azienda privata che potrebbe essere vincolata, però, a garantire lo svolgimento delle attività dell’associazione intitolata a Davide Bifolco, sedicenne ammazzato due anni fa nel rione da un carabiniere. Per ottenere il permesso temporaneo per avviare il doposcuola con i bambini del quartiere, i membri dell’associazione avevano dovuto occuparlo, l’edificio, stanchi dei rimpalli burocratici istituzionali. Dopo la prova di forza la situazione si è sbloccata, ma il rischio che, col tempo, qualcuno trovi il modo per buttare fuori educatori e bambini, non è del tutto superato. Nonostante la situazione di precarietà, la scorsa estate, il collettivo della Lokomotiv Flegrea (una polisportiva popolare della periferia ovest della città) ha collaborato con l’associazione per riparare la bella palestra stile anni Settanta al piano terra della scuola, oltre ai bagni e le docce. Oggi, due sere a settimana, i cestisti della squadra di Promozione vi si allenano sotto lo sguardo distratto dei ragazzini del rione.
Ciro e gli altri bambini che la sera vanno a curiosare agli allenamenti, si fanno vedere poco ai doposcuola. Sono un po’ più grandi, hanno tra i dieci e i dodici anni, e comunque il pomeriggio giocano a calcetto (la maggior parte nella scuola di Pasquale Foggia, ex calciatore di serie A) o gironzolano per strada. Abitano nelle palazzine di fronte la Copernico, una decina di edifici poco distanti da una piazzetta-parcheggio la cui sistemazione costituisce l’intervento più rilevante fatto dal comune nel rione dopo la morte di Bifolco. In quei giorni si faceva un gran parlare delle condizioni del quartiere, del degrado, della vendita di droga nelle basi del Tertulliano. Lo squallore della piazzetta – proprio di fronte alla casa del giovane ammazzato – sporca, disseminata di giostrine sfondate, saltava immediatamente agli occhi. Dopo qualche tempo fu rimessa in sesto e oggi, mentre i bambini giocano a pallone, gli adolescenti hanno un muretto levigato su cui appoggiare gli avambracci per contemplare il pub di Annalisa di fronte a loro; sullo sfondo, lo squallore e il vuoto di sempre.
Il pub di Annalisa è un negozio a due entrate, all’angolo della strada. Fin dal pomeriggio c’è un via vai di ragazzi che fanno sosta tra un giro e l’altro in motorino per mangiare una pizzetta o un panino. Fuori, in strada, altri giovani sono seduti ai tavoli rossi della coca cola, gli stessi ai quali, fino a qualche ora prima, sedevano le loro mamme a chiacchierare. Tra il pub e la piazzetta c’è la chiesa della Medaglia Miracolosa, quella in cui si sono svolti a settembre del 2014 i funerali di Davide. A officiarli fu padre Lorenzo, all’epoca ventiseienne, arrivato nel rione appena pochi giorni prima.
Padre Lorenzo è disponibile con tutti. È pugliese, ma ha studiato a Napoli in seminario, e ne è diventato vicedirettore. Ha lavorato per qualche anno nei Quartieri Spagnoli e non ha avuto difficoltà ad accettare l’incarico nel Rione Traiano, poco gradito ad altri preti. La morte di Davide lo ha messo a confronto con una parte di quartiere che forse, senza quell’evento, non avrebbe mai conosciuto veramente. È stato in strada a vegliare nel punto in cui il ragazzo è stato colpito dal carabiniere, ha ascoltato sfoghi e minacce di vendetta, ha provato a lenire il dolore girando casa per casa, senza chiedere a nessuno la carta d’identità. In questi due anni, il suo atteggiamento conciliante gli ha causato più problemi che altro. Nei giorni successivi all’omicidio alcuni giornalisti l’hanno definito un prete “compiacente con la camorra”, e anche in Curia qualcuno non si è mostrato contento quando ha fatto allestire una camera ardente all’interno del teatro della chiesa. In media, in una parrocchia come quella di via Marco Aurelio, un prete rimane per cinque o sei anni. Dopo due di duro lavoro, soprattutto nell’oratorio, per padre Lorenzo la Curia ha scelto un’altra destinazione. Entro la fine dell’anno, ma forse anche prima, i parrocchiani dovranno salutarlo definitivamente.
Le sere in cui nella scuola ci sono gli allenamenti, un’ora prima dell’apertura del cancello, Ciro e gli altri sono già lì. Aspettano i primi giocatori e appena la chiave fa scattare il catenaccio si catapultano in palestra. In quello spazio circoscritto viaggiano come schegge impazzite, rincorrendosi per qualche minuto. Dopo un po’ smettono di girare a vuoto e incominciano a giocare con i palloni. Qualcuno prova con quelli da basket, altri tirano con i piedi in una porta da calcetto. L’unico vero pericolo è quando lanciano il pallone a campanile verso il soffitto, colpendo i lampadari che illuminano la struttura. Talvolta, ad accompagnare i più piccoli si vede anche qualche giovane genitore. Sono ragazzi più vicini ai venti che ai trenta, che finiscono per impadronirsi del gioco dei loro stessi figli e nipoti, improvvisando un torello o calciando a loro volta con tutta la forza che hanno contro i muri e le porte. Quando, dopo circa un’ora di sconquasso, il coach comunica che è ora di cominciare l’allenamento, gli adulti escono senza batter ciglio. In palestra rimangono cinque o sei ragazzini.
Alcuni alberi da frutta sopravvivono nei piccoli spazi di terreno agricolo che si estendono alle spalle della Copernico. Siamo nel punto in cui il rione si congiunge con la collina di Monte Sant’Angelo, sul cui versante orientale c’è una delle più grosse sedi universitarie cittadine. Addentrandosi in quei terreni vi sono residui di vecchie masserie, dove ancora qualche contadino porta al pascolo una mezza dozzina di caprette spelacchiate. Alla rotonda di via Cinthia, uno dei quattro principali punti di accesso al quartiere, capita di vedere posti di blocco di carabinieri e polizia. Siamo a pochi metri dal punto in cui l’agente Macchiarolo ha ammazzato Davide Bifolco. I poliziotti stazionano mitra alla mano con sguardo minaccioso. All’interno del rione, invece, i posti di blocco non ci sono mai. Le volanti vi transitano soltanto, senza mai addentrarsi nei controviali, a meno che non ci sia da fare un blitz.
La domanda di un maggiore controllo poliziesco è arrivata in maniera puntuale, da parte dell’opinione pubblica e della stampa, nelle settimane dopo la morte di Davide. Da sinistra si levavano generiche richieste di una maggiore attenzione delle istituzioni per gli abitanti del quartiere, abbandonato a se stesso da almeno trent’anni, quando il fallimento delle politiche abitative ha contribuito alla degenerazione della qualità della vita e al radicamento criminale in alcune zone del rione. Le risposte da parte delle istituzioni sono apparse incerte e confuse almeno quanto le domande di attenzione. Il sindaco si è speso molto, a parole, in questi due anni, promettendo un rinnovato impegno all’interno del quartiere. Al di là di qualche soldo per il rifacimento della piazza, però, l’unico intervento è stata l’inaugurazione del centro giovanile NaGioJa, all’interno del Polifunzionale, utilizzando fondi già stanziati. A sponsorizzarlo l’assessore Clemente, che ha tagliato i nastri di NaGioJa a marzo, a un paio di mesi dalle elezioni, pur sapendo che per “questioni di bilancio” il centro non avrebbe potuto essere attivo prima di questo settembre. All’apertura della struttura, l’assessore ha lavorato coinvolgendo alcune associazioni del quartiere, ma dopo pochi mesi il comune si è sfilato dall’operazione, lasciando a giovani volenterosi ma senza mezzi l’incombenza di organizzare uno spazio di quattromila metri quadri. A oggi, l’assessorato non si è preoccupato nemmeno di allestire un sito internet del centro, così come una pagina Facebook, o di attivare campagne di coordinamento con le scuole. Le attività, che cominciano lentamente a partire, sono sconosciute alla maggioranza degli abitanti del rione, che continuano a guardare al Polifunzionale come a una piccola città (vuota) che ha ragion d’essere solo in virtù di due o tre campi da basket o pallavolo.
Uno dei ragazzi che giocavano a pallone con i bambini è tornato in palestra. È furioso, ce l’ha con il custode della scuola che si rifiuta di aprire un cancello e non permette ai giocatori della Lokomotiv di parcheggiare nel cortile. Così, questi non hanno alternativa che fermare la macchina davanti alle “finestre” di casa sua. Il problema è che le finestre sono delle grate di ferro ad altezza marciapiede, abitando il giovane in uno dei tanti scantinati occupati del rione; in effetti, parcheggiandoci davanti un’auto, anche quel po’ d’aria che potrebbe arrivare trova davanti a sé un invalicabile ostacolo. Alla fine si trova una mediazione: dalla prossima volta i giocatori parcheggeranno più in là. Rientrando incontro Ciro, che gironzola ancora sull’hoverboard. Comincia a essere tardi, gli chiedo se è andato a mangiare e mi fa segno di no con la testa. Procede verso la palestra subito dietro di me. Poi mi raggiunge e mi chiede svogliatamente: «Quand’è che inizia il minibasket il pomeriggio?».
Ciro fa parte di quei ragazzini che sfuggono completamente dalle maglie della pur fragile rete di lavoro sociale che esiste nel quartiere. Per questioni di organico, di risorse, talvolta anche di metodo e capacità, le poche associazioni che nel rione lavorano con i minori faticano a includere proprio quelli che ne avrebbero più bisogno. Con alcune di queste realtà il comune stipula delle convenzioni, limitandosi a delegare piuttosto che investire per migliorarne l’intervento e superarne i limiti. Così, fatta eccezione per qualche partecipante ai doposcuola delle suore o all’educativa territoriale dell’Orsa Maggiore, e ai volenterosi tentativi fatti in questo senso dagli operatori dell’associazione Bifolco, i bambini che dopo le lezioni passano il tempo in strada non hanno grosse alternative. Dal punto di vista delle risorse da destinare al sociale, del supporto agli abitanti più giovani del quartiere, della vicinanza ai più deboli che il sindaco aveva millantato fin dalla settimana successiva alla morte di Davide, nulla è stato fatto e nulla è cambiato.
Attraverso la piazzetta e osservo il murales con la faccia di Davide, inaugurato due settimane fa, in quello che sarebbe stato il giorno del suo compleanno, festeggiato la sera con un monologo di Ascanio Celestini in suo onore. Quel pomeriggio, mentre l’autore del disegno completava il lavoro aiutato dai bambini e dai ragazzi dell’associazione, due carabinieri in motocicletta erano andati a provocare, fermandosi lì davanti, dicendo che il murales non era autorizzato e che non è legale disegnare sui muri. Inutile dire che nel raggio di un paio di chilometri da quel punto ci sono più basi di droga che in interi quartieri della città. Più avanti, all’altezza dell’incrocio con il viale Traiano, dove di sera le macchine corrono nel buio (d’estate) e nella nebbia (d’inverno), c’è un altro murales. È piuttosto sbiadito, ma si vede la scritta: “Quo vadis baby?”, gialla e blu sui mattoni bianchi. Passo davanti al murales e giro a destra per andare a prendere la Cumana. Attraverso un paio di lunghi viali e poi la strettoia dove alcuni ragazzini stanno fermi su una panchina a chiacchierare. Non si vede niente, istintivamente mi metto sulla difensiva. Cerco di tenere la testa alta e di non modificare il mio passo. Vince chi ha meno paura dell’altro, in questi casi. Gli passo davanti, guardo le facce e sembra non ci sia niente da aver paura. Uno è in piedi, sempre sulla panchina, ha in mano un temperino e lo infila meccanicamente, senza guardare, nella corteccia di un albero alle sue spalle. Gli altri mangiano un hamburger e bevono coca cola. Quando li ho sorpassati uno di loro fa un rutto enorme e scoppiano tutti a ridere.
Mentre aspetto la Cumana, affacciato dalla sopraelevata, li vedo andar via nel buio, passandosi a calci le carte oleose dei panini. Dovranno fare almeno cento metri per arrivare al primo lampione arancione che illumina la strada e riflette sulle palazzine di mattoni rossi quella strana luce, ricordandomi ogni volta Armley, il quartiere operaio di Leeds, dove i ragazzini mangiano il kebab sulle panchine e sputano a terra quando passa la polizia. (riccardo rosa)