Il modo in cui la grande stampa ha raccontato il contesto sociale dell’omicidio di Davide Bifolco, riducendo tutta la questione a un problema di ordine pubblico; i commenti dei tanti maestri di pensiero locali e nazionali, oscillanti tra la colpevolizzazione degli abitanti dei ghetti urbani e gli spauracchi, sempre agitati a sproposito, di infiltrazioni camorriste o di solidarietà eversive con centri sociali e altri portatori di conflitto; l’impotenza del sindaco, l’ostentata indifferenza delle altre istituzioni laiche e religiose, in generale il coro stridente e rumoroso che si leva dai benpensanti in queste tragiche occasioni, ci hanno indotto a mettere in cantiere una serie di reportage sulla condizione giovanile nei tanti ‘rione traiano’ della città. Un modesto contributo per arginare la marea delle ipocrisie e delle falsità, sapendo bene che per sottrarre la gioventù dei nostri quartieri alle sirene ambigue della malavita e all’abbandono dei governanti, l’unico modo passa per una azione coordinata e perseverante nei territori, al fine di portare in superficie la dignità, i punti di vista, le esigenze e anche le contraddizioni di quelli che ci abitano. La prima puntata della nostra serie non poteva che cominciare dal rione Traiano.
L’acqua della pioggia che scende dalla collina ha scavato nel corso del tempo dei valloni nel tufo, profondi fino a trenta metri, dove cresce spontaneamente un bosco di castagni. Il professor Marcello Canino ha scelto questa zona accidentata ai piedi della collina dei Camaldoli, per il progetto affidatogli a metà degli anni Cinquanta dal comitato di coordinamento per l’edilizia popolare (CEP). “Era un caso quasi unico, perché è ben noto quante difficoltà si incontrino a creare zone verdi nei nuovi quartieri popolari. In questo caso le zone verdi vi erano già naturalmente e bastava preservarle innestandole nella composizione urbanistica”. La pianta del quartiere si sviluppa seguendo la complessa morfologia del territorio, affidando l’attraversamento dei valloni alberati a una serie di ponti, che avrebbero collegato sette pianori, ognuno dei quali destinato ad accogliere un nucleo minore del quartiere. Nel tessuto urbano sono integrati servizi e trasporti, dai cinema alle palestre, strutture per l’assistenza medica e sociale, biblioteche. Il progetto entra a far parte del piano regolatore il 19 settembre 1957. L’anno seguente, il plastico di questa nuova zona di Napoli viene esposto alla Mostra d’Oltremare. Mentre Canino e altri architetti e urbanisti guardano con fiducia al futuro, si dà il via al programma finanziario: per altri, è qui che comincia la parte interessante.
In una traversa del viale Traiano, via Lattanzio, c’è una scuola abbandonata. È distrutta, rimane in piedi solo lo scheletro, ingombro di detriti e mobili sfondati. Entrando nel parco si vede un solo muro ancora integro, dietro il quale c’è la palestra di boxe di Guido De Novellis. L’ex campione italiano di pugilato, tredici anni fa ha avuto in concessione questo spazio abbandonato e col tempo l’ha trasformato. Ora è un unico ampio spazio, dalle pareti molto alte, tappezzate di bandiere nella parte superiore e di fotografie in quella inferiore. Le immagini ritraggono il nonno ciclista su una splendida forcella, ai tempi delle sue gare agonistiche; c’è De Novellis, quando gareggiava a livello nazionale. Me ne mostra un’altra in bianco e nero di suo figlio, piccolo e coi guantoni enormi, all’angolo del ring. E poi lo stesso soggetto, però grande, grosso e a colori, che alza le braccia dopo una vittoria. Quando questa palestra venne inaugurata le occasioni per fare sport, amatoriale o agonistico che fosse, erano scarse. Il Polifunzionale non era che una montagna di cemento e miliardi rubati alla collettività, cosa che continua a essere ancora oggi, malgrado tre campi da basket e pallavolo in funzione. De Novellis, braccia incrociate e parlata veloce, mi spiega che continua a esserci una folla di persone che nei giorni dispari si allena attorno al suo ring. Nei giorni pari, invece, la palestra è dedicata all’allenamento di chi non può permetterselo. È un martedì il giorno in cui lo vado a trovare. Sul linoleum si massacrano di esercizi dei ragazzi intorno ai diciotto anni, sono tutti venuti lì a chiedere di poter frequentare la palestra gratuitamente. Il maestro mi dice che se un ragazzo ha una famiglia che non lo segue o che non può permettersi di farlo, se questo continua a non trovare lavoro, gli si dovrebbe almeno dare la possibilità di tenersi in forma fisicamente, di essere educato dalla disciplina dello sport. Mi indica un ragazzino che fa addominali: «Quello quando entrava stava come un pazzo, col fuoco negli occhi. Pian piano l’ho fatto sfogare, ha imparato a mantenere la concentrazione, ora è più tranquillo, più maturo, il padre è contentissimo». Gli chiedo come fa a essere sicuro che sia nullatenente chi si presenta per allenarsi gratis. Lui mi risponde che questa iniziativa è fatta per aiutare non solo fisicamente, ma anche psicologicamente: se qualcuno ha i soldi e fa finta di essere povero per risparmiare quaranta euro al mese, vuol dire che anche lui ha bisogno di aiuto.
Nel frattempo i motorini passano rumorosi sullo stradone che collega il rione al resto della città. Vengono allo scoperto e poi subito scompaiono nelle strade che si addentrano nel centro abitato, dove ho sempre la sensazione di trovarmi a casa di qualcuno che non mi ha invitato. Il rione è un circuito chiuso, dove le famiglie e le generazioni si sovrappongono, creando in alcune zone un intreccio inestricabile di conoscenze. La chiusura accorcia gli orizzonti e i margini di scelta. La disoccupazione non può essere un alibi per chi entra a far parte in modo attivo dei meccanismi del Sistema ma, ad ascoltare chi racconta la sua esperienza, chi non si costruisce da sé una via di uscita, rischia di infilare una corsia che ti fa correre restando sul posto. Perché va bene mettersi in proprio, essere bravi a fare qualcosa, «…ma mai esagerare. Devi sempre restare con le Converse ai piedi e la macchina scassata. Se cominci a salire già non va bene». Saper fare qualcosa è più che lavorare, avere una passione è qualcosa di più forte ancora. C’è chi è partito dall’ossessione per il disegno, ha investito la sua prima vera paga in un kit per tatuatore e da autodidatta ha imparato un mestiere, si è assicurato una clientela, trovando un terreno solido su cui poter contare per arrivare a fine giornata e non dover chiedere niente a nessuno, sottraendosi con grande sforzo da una forza magnetica che nel rione lo voleva attirare verso il basso.
Diversa è la storia della persona che incontro a Fuorigrotta, nella carrozzeria dove lavora. Si chiama Lello. Mi fa sedere davanti a una scrivania ricavata dalla parte anteriore di una Peugeot e comincia a parlare del luogo dove ha vissuto, quella via Tertulliano dove sembra che all’inizio della strada ci sia una porta invisibile, e tutto cambia nello spazio di pochi metri: tutti passano, rapidamente e senza sosta, ma in realtà nessuno entra e nessuno esce. Nelle scale del condominio c’è un battitacco di marmo che si sposta e nasconde la merce del piccolo spacciatore del posto. Lello ha la passione per l’arte, nella sua cantinola costruisce un laboratorio dove dipinge. All’epoca spazi del genere venivano presi di mira da chi non aveva un posto per vivere, soprattutto dopo il terremoto dell’Ottanta. La conseguenza è che Lello e la sua famiglia devono lottare per conservare quella piccola stanza sotterranea dove vengono create le tele che adesso, mentre parliamo, escono da dietro gli scaffali, tra strumenti di lavoro e pezzi di carrozzeria, ricoperte di polvere e macchiate da schizzi di vernice. I personaggi dei dipinti di Lello si deformano, hanno bocche enormi a furia di lanciare urla sguaiate, gli occhi spalancati e i corpi in allarme. Poi sculture in ferro, nella stanza dove si conservano in ordine le latte di colore per la verniciatura delle auto: figure lacerate e primitive, dai colori vivi ma resi invisibili dalla polvere. Un ragazzino, per fare il palo prende trecentocinquanta euro a settimana rischiando ogni giorno la galera. Più o meno per la stessa somma, se imparasse il mestiere, Lello lo assumerebbe in carrozzeria. Imparare però non è che la parte tecnica di una questione più grande, che consiste nel sapere di avere una alternativa.
Su una delle grandi strade di attraversamento del quartiere, al piano terra di uno dei palazzi che la costeggiano, ci sono le sedi dei partiti, uno al fianco dell’altro: partito comunista, partito democratico, nuovo centro destra e un grande bar in stile neobarocco, con un’insegna che arriva quasi al primo piano del palazzo e neon che di notte illuminano l’asfalto. Nello stesso palazzo abita Antonio. Quando entro e gli faccio i complimenti per la casa lui tentenna nel rispondermi: ci sono troppe cose da raccontare, se vengono fuori tutte assieme non si riesce a dirle, bisogna sedersi e parlare con calma. Antonio nel 1980 studiava architettura. La donna che ora è sua moglie, invece, lingue all’Orientale. Avevano due figli piccoli, uno tra le braccia di lui, l’altro tra quelle di lei, quando il 23 novembre 1980 la loro casa a Montesanto cominciò a ondeggiare e pensarono di morire. Si salvarono invece, ma persero tutto. Il terremoto aveva danneggiato, oltre alla loro casa, i luoghi dove avevano investito per anni le loro energie, creando con un lavoro di anni una scuola a tempo pieno. Antonio, che non disponeva dei dodici milioni a fondo perduto che in quell’occasione pretendevano per dare una casa in affitto, era destinato ai container. Per evitare tutto questo, individuò un edificio di proprietà del comune, a Soccavo, e occupò un appartamento. Non era però una occupazione come le altre: il palazzo non era stato completato, non c’erano le mura, si dormiva coi giubbotti, con materiali di recupero a fare da pareti esterne.
Antonio mi indica il corridoio in fondo, dove adesso si trova una delle stanze: al posto di quella porta si vedeva il palazzo di fronte. Questa occupazione non ha una organizzazione dietro, c’è solo una voce che gira, e dice che uno studente di sinistra fa occupare appartamenti agli sfollati: lo fermano per la strada e gli chiedono se è lui quello che dà le case gratis. Il palazzo si riempie, col tempo i lavori di costruzione vengono terminati e negli anni la famiglia che per prima occupò l’immobile continua a ristrutturare l’appartamento, rendendolo il posto accogliente che è adesso. Ma Antonio non si ferma, al piano terra c’è uno spazio inutilizzato che occupa tutto il piano terra dell’edificio, più un livello interrato delle stesse dimensioni. Con un grande lavoro l’ex studente di architettura elabora un progetto per riqualificare quel luogo, per creare un centro culturale. Appena accenna all’argomento tira fuori una pianta in scala che spiega su tutta la scrivania: al primo piano una biblioteca, con una sala riunioni, un’area ricreativa e un ampio spazio dedicato al coordinamento tra le associazioni culturali della città. Il piano inferiore è dedicato alle attività per i bambini, al cinema, alla musica, al teatro. Il progetto viene approvato dal comune.
C’è qualcosa però che succede tra l’approvazione di un progetto e la sua realizzazione. C’è una istituzione che firma, ma poi ce n’è un’altra che deve controfirmare. Uno spazio resta vuoto, inutilizzato, i fondi si perdono nel nulla e i lavori non vengono completati. Le proposte vengono ascoltate, approvate, addirittura incoraggiate ma poi niente si muove. Fino a quando, all’improvviso, tutto si sblocca, ma non nel modo che pensavi. Al posto del centro culturale vengono assegnati i locali alle sedi di partito che in realtà sono centri per la vendita di servizi di patronato. Il solito meccanismo clientelare che non ascolta ragioni, non guarda ai progetti, alle proposte, forza il meccanismo ungendolo col denaro, fino a deformarlo, alterandone il funzionamento: a quel punto non c’è neanche più bisogno di forzare, le cose vanno avanti in modo ufficioso e regolare. Chi con me ha parlato della sua esperienza, quando ha dovuto difendersi dalla malavita organizzata, ha trovato nello stato un secondo nemico, alleato al primo grazie alla forza della corruzione e della mediocrità. E non si tratta di mele marce.
Fin dai primissimi giorni della costruzione del rione Traiano, nelle vallate che il professor Canino voleva diventassero lo spazio verde del rione, i camion scaricavano di notte i detriti che provenivano dagli altri cantieri privati, scarti di una speculazione edilizia che guadagnava terreno sulla città, distruggendo e ricostruendo senza freni. In breve tempo i boschi di castagni furono sommersi dai detriti e dai rifiuti. Prima ancora che i ponti per l’attraversamento dei valloni fossero completati, non c’era più nulla da attraversare. Le autorità impedirono a stento lo scempio; a cose fatte, invece di intervenire sui responsabili, si decise di accettare la cosa e di costruire le strade su quelle opere di riempimento coatto. Il viale Traiano sorge su un cumulo di rifiuti dell’edilizia e dell’industria. Il progetto per la costruzione del quartiere, ormai snaturato, fu comunque portato avanti, e alcuni suoi risultati si distinguono ancora oggi da un punto di vista architettonico e funzionale. Ma il terremoto creò l’emergenza, che a suo volta diede il pretesto per nuovi rimaneggiamenti, venne data priorità alle abitazioni, rimandando a data da destinarsi la costruzione delle infrastrutture e dei servizi. Nel nuovo quartiere vennero confinate le classi povere in emergenza abitativa. Oggi, persone che non hanno mai visto una periferia, intellettuali mediocri giudicano da lontano, seduti su una poltrona in televisione, e decidono a tavolino, secondo i propri interessi, qual è il motivo per cui un ragazzo viene sparato da un poliziotto, o perché centinaia di vite sono rovinate o spezzate sul finire di vicoli ciechi. Si continua a versare detriti sul rione, sommergendo quel che resta di buono, facendo il gioco di chi ha tutto l’interesse perché il quartiere resti isolato, le idee non circolino, le possibilità non arrivino a chi vorrebbe che le cose in quel posto non andassero così. Le porte del rione Traiano non si sono chiuse da sole. (umberto piscopo)