Passano le ore, ma la gente non vuole tornare a casa. Ne sono passate più di quaranta dall’uccisione di Davide Bifolco da parte di un carabiniere al Rione Traiano, dopo che il ragazzo, su un motorino assieme ad altri due giovani, non si era fermato all’alt della volante. Passano le ore e il Rione sembra essere in un fragile equilibrio tra rabbia senza sfogo e desiderio che ciò che è accaduto possa non essere considerato solo un incidente.
Arianna è la cugina di Davide. È poco più che un’adolescente, ma si comporta già come una donna. Si sforza a non piangere, mentre distribuisce i caffè ad amici e parenti arrivati a casa. Ha gli occhi gonfi, una maglietta bianca, shorts di jeans stretti e una felpa a pois legata in vita. In mano una foto che ritrae il cugino al tavolo di un ristorante. Davide ha un ciuffo di capelli davanti agli occhi, una camicia bianca. Sorride. Sono le due del pomeriggio. Arianna porta la foto a un gruppo di ragazzi che discute sui motorini. Stanno preparando uno striscione per il corteo delle 16,00 e riflettono su cosa scriverci. Verità e giustizia, è lo slogan, troppo spesso una formula vuota per titoli di giornali e comitati di lotta. Lo stesso che aveva accompagnato, non più di due mesi fa, il feretro di Ciro Esposito, ammazzato da un ex ultras della Roma vicino agli ambienti di estrema destra capitolina, prima della finale di Coppa Italia. «Cerchiamo di stare tranquilli – raccomanda Arianna –. Quello che vogliamo è giustizia, non vendetta».
La necessità di mantenere la calma è cosa condivisa. I ragazzi parlano del carabiniere che ha ucciso il loro amico. I toni sono minacciosi, ma i più manifestano la voglia di non passare dalla parte del torto. «I giornali – si sfoga una vicina – hanno dipinto tre bravi ragazzi come criminali. Non ci metteranno molto, se al corteo succede qualcosa, a scrivere che siamo tutti camorristi».
Mentre il quartiere si prepara a sfilare per Davide, alla rotonda di via Cinthia si radunano persone da tutta la città. Alla partenza il corteo ne conta quattrocento, ma per le strade del rione diventeranno più del doppio. I ragazzi indossano una maglietta bianca, per ribadire l’innocenza del giovane. Le ragazze non trattengono le lacrime, mentre portano un altro striscione. In mezzo a loro ci sono anche Totore e Vincenzo. Erano sul motorino con Davide, quella notte. Il primo ha diciotto anni, le spalle larghe e un rosario al collo. È sempre in mezzo a un gruppetto di amici, sembrano volerlo proteggere da qualcosa. Non ha voglia di parlare, Salvatore, ma non riesce a non sfogarsi: «Otto ore sono stato in caserma, dal momento del fatto fino alle undici del giorno dopo», racconta. «Chiedevo notizie di Davide, ma nessuno voleva dirmi niente. Avevo capito subito che era morto, che mi avevano lasciato ammanettato a terra davanti al mio amico che moriva». Comincia a piovere. La gente si affaccia ai balconi e grida anche da lì. Poco lontano c’è Vincenzo. È spuntato fuori ieri, dopo essere scappato al termine dell’inseguimento. Ha gli occhiali da sole, la barba disordinata e cresciuta male, come a un ragazzo di poco più di venti anni. La sua presenza rende ancor meno chiare le ricostruzioni dei carabinieri, che volevano Davide in sella al motorino con un “latitante”. «Io sono incensurato. Non c’è nessun latitante», racconta scuro in volto. Si tira su la cerniera del giubbotto, sembra quasi voglia mettersi a urlare ma continua con un filo di voce. «Hanno scritto che c’era un latitante con Davide e Totore, ma ci stavo io. E appresso a lui sono morto anche io». Vincenzo di anni ne ha qualcuno in più degli altri due amici. Ha lavorato, come tanti ragazzi del quartiere, ma come tanti altri quel lavoro l’ha perso. «Faccio l’elettricista sulle barche. Anzi facevo», spiega mentre senza ragione, per un istante, quasi sorride. Poi la rabbia prende il sopravvento: «Stavamo andando al bigliardo per salutare gli altri e saremmo andati a dormire. Se si potesse tornare indietro nel tempo…». Si blocca, ricomincia a camminare: «Siamo bravi ragazzi. Non si può morire perché non si ha l’assicurazione sul motorino».
Durante il corteo il nome di Davide viene ripetuto centinaia di volte. Gli slogan esprimono impotenza: «Davide uno di noi!», si grida. «Giustizia e verità!». Altri sono più rabbiosi: «Assassini con la divisa!», «Infame!» e «Devi pagare!», si susseguono mentre la pioggia comincia a battere sulle palazzine dai mattoncini rossi e sull’asfalto delle strade con i nomi degli imperatori romani. La giustizia che si chiede, è in riferimento alla dinamica del fatto e alla modalità con cui la pattuglia dei carabinieri ha “liberato” la scena del delitto. Nonostante fosse morto sul colpo, come confermato dall’ospedale, il corpo di Davide è stato subito caricato su un’ambulanza, e anche i due mezzi (il motorino e la volante), sono stati spostati dal punto di caduta. Una procedura assolutamente scorretta, che creerà notevoli problemi nelle indagini per la ricostruzione dell’accaduto.
Il corteo attraversa il Rione, arriva fino a piazza Giovanni XXIII, alla sede della municipalità e dei carabinieri. Lì si ferma per un po’, davanti alle camionette della polizia e a un dispiegamento di forze in tenuta antisommossa. Slogan, urla, qualcuno avvicina alle facce degli agenti la foto di Davide, ma poi si prosegue senza grosse tensioni. Qualcosa succede, quando una macchina della Digos viene prima circondata, poi presa a pugni da un gruppetto di venti persone. Finita la manifestazione, anche la pioggia si ferma, e ci si raduna alla rotonda. A pochi metri dal punto in cui Davide è stato ucciso, davanti a un pezzo di legno pieno di fiori, fotografie e ricordi scritti a penna dagli amici.
Passano le ore, ma la gente non vuole tornare a casa. Alla rotonda cominciano i blocchi stradali. Andranno avanti per un po’, spostandosi anche all’uscita della tangenziale di Fuorigrotta. È lì, quando un gruppo di manifestanti rovescia dei bidoni dell’immondizia, che interverranno i blindati della polizia, rimuovendo gli ostacoli e avanzando velocemente sulla carreggiata destra. C’è confusione, qualcuno scappa. Più avanti partono delle cariche e un lancio di lacrimogeni, a cui i manifestanti rispondono tirando ciò che trovano per strada. Dopo mezz’ora la situazione si calma. La tensione cala, in attesa di una veglia organizzata per le nove e trenta, con la lettura del Rosario.
Mamma Flora rientra per qualche ora a casa, dopo una giornata lunghissima. Incontrerà Fabio Anselmo l’avvocato che assisterà la famiglia, lo stesso che ha seguito i casi Cucchi e Aldrovandi. Chiede che ci sia giustizia, la signora Flora, non soltanto un colpevole. Lo fa in lacrime, ma anche lei voce bassa, consapevole che «nemmeno questo mi ridarebbe indietro mio figlio».
Sono le nove. Qualcuno accende una candela vicino la foto di Davide. La pioggia le aveva spente, ora sono di nuovo lì. Sono passate ore, e ne passeranno ancora molte. Ma nessuno, qui, sembra voler rientrare a casa. (riccardo rosa)
Leave a Reply