Giorni fa mi è capitato di fare due chiacchiere con un acquafrescaio di uno dei chioschi più antichi di Napoli. Tra le varie storie che mi ha regalato, spulciando la sua memoria fatta di passaparola tra una generazione e l’altra, è venuta fuori quella del guappo Ciccio Cappuccio, che negli anni Quaranta gestiva un negozio di mangimi e attrezzi per cavalli nei pressi di piazza Trieste e Trento e un giorno sedò una rivolta di cocchieri. Gli scioperanti gli diedero retta perché – parole dell’acquafrescaio – «Ciccio Cappuccio era un uomo di rispetto e sapeva dove collocare il torto e la ragione».
Ciccio Cappuccio mi piace immaginarlo come un uomo sui generis, non certo d’indole mite, uno di quelli che sanno il fatto loro, con una certa esperienza da poter giudicare anche i fatti degli altri. Un personaggio difficile da collocare, soprattutto oggi che queste figure sono apparentemente scomparse. Una mutazione di contesto che probabilmente era già in corso sul finire degli anni Cinquanta, quando Eduardo compose Il sindaco del Rione Sanità – il cui protagonista è il guappo Antonio Barracano che finisce ucciso per non far uccidere – e che, assieme a Il contratto e De Pretore Vincenzo, s’inserisce nella cosiddetta “trilogia sociale” dei Giorni Dispari. Questi testi, a metà tra il visionario e la rappresentazione di una realtà locale difficile da raccontare soprattutto fuori Napoli, sono quelli davanti cui il lettore/spettatore restava “colla bocca storta”, a detta del critico Alberto Savinio. Nel caso de Il sindaco, si tratta di una storia di un naturalismo spinto con un finale quasi incredibile, che lascia intravedere un pirandelliano “senso del contrario” di cui tutto l’ambiente descritto è imbevuto.
Per questi e altri motivi la ripresa de Il sindaco del Rione Sanità da parte del collettivo del Nest Napoli Est Teatro, affidata alla regia di Mario Martone, merita attenzione e suggerisce qualche riflessione. Iniziamo col dire che lo spettacolo, debuttato al Nest a inizio marzo e ora in scena allo Stabile di Torino (che ha co- prodotto il lavoro, assieme a Elledieffe, compagnia di Luca De Filippo), è stato un successo: di pubblico – teatro stracolmo ogni sera con persone venute anche da fuori città, un ottimo risultato per il Nest, realtà preziosa a San Giovanni a Teduccio, che in pochi anni è riuscita ad attrarre un pubblico numeroso e assiduo – e di critica – un coro unanime di lodi: in molti l’hanno considerato un piccolo miracolo.
Nel cast, oltre ai fondatori del collettivo del Nest, Francesco Di Leva e Adriano Pantaleo (con Giuseppe Miale di Mauro all’aiuto regia), una serie di “non attori” locali che affiancavano Giovanni Ludeno e Massimiliano Gallo. Questi ultimi, assieme a Di Leva nei panni del sindaco Barracano, garantiscono al lavoro la qualità attoriale, mentre gli altri fungono da coro perfettamente in tono con l’atmosfera della storia. Nell’adattamento, tre scelte segnano un punto di non ritorno che caratterizza profondamente questa versione. La prima salta subito agli occhi: non siamo più nel laurismo di fine anni Cinquanta, quando Eduardo scrisse la commedia, ma in piena ambientazione Gomorra: casa-bunker, divani in pelle e teli dorati, rottweiler in scena (presente alla prima e poi sostituito da un pupazzo), giubbotti, smartphone, pistole con tanto di colpi esplosi, di cui lo stesso Martone ci avvisa quando ci accoglie in sala prima dello spettacolo. A condire il tutto Maria Nazionale e un rap iniziale scritto ad hoc e interpretato dal rapper Ralph P.
La seconda scelta riguarda, di conseguenza, il protagonista: Barracano/Eduardo, guappo attempato, padre putativo collettivo, capopopolo involontario e ossimorico di un quartiere allo sbando ora è un (giovane) boss palestrato e sanguigno – lo stesso Di Leva aveva interpretato un personaggio simile nella pellicola Una vita tranquilla di Claudio Cupellini. La terza è ultima scelta incide sul finale che, cambiato anche se non in maniera eclatante, mette in luce un dato: Barracano viene ucciso da Arturo Santaniello, ricco panettiere che, a differenza sua, “si è sempre fatto i fatti suoi” e ha sempre vissuto con gli occhi chiusi; è lui che viene chiamato in causa con una domanda inquietante che si perde nel buio dell’amarissimo finale.
Per lo stesso Eduardo la trattazione di alcuni degli argomenti su cui poggia Il Sindaco non era indolore, così come non lo è per chiunque parli della città e dei suoi “inabissamenti” in quanto parte in causa nelle vicende. Per questo è interessante che dal Nest sia arrivata la richiesta di rimettere mano proprio a questo testo. D’altra parte, va detto che in questa versione gomorrizzata di Eduardo passa in secondo piano uno dei nuclei della sua scrittura, sviscerato in modi e drammaturgie diverse: Rafiluccio (figlio del ricco panettiere piccolo borghese che lo rifiuta e che alla fine uccide il sindaco Barracano) vorrebbe uccidere il padre a causa, appunto, di una “cattiva paternità”; finisce per chiedere affiliazione al guappo Barracano che, in quanto giudice del quartiere, supplisce a una paternità, per così dire strutturale e cittadina evidentemente mancante: “Don Antonio è ‘o pate nuosto! Don Antonio ‘o pate e Napule”, si esclama poco prima del finale. Da questo punto di vista, sul tema della paternità appare più efficace l’intervento del tanto criticato Latella (mentre nel caso di Martone, che pure ha operato notevoli cambi rispetto all’originale, nessuno ha gridato allo scandalo), che ne Il Natale in casa Cupiello opta per un adattamento visionario e poetico piuttosto che per un iperrealismo al limite della macchietta.
La crepa più ampia si apre sull’immaginario cui questa versione attinge, e che a sua volta restituisce. Fu lo stesso Eduardo, ancora una volta presagendo i tempi, a tentare d’imprimere dei segni, a collocare degli argini per non perdersi e per non farci perdere: “Ho dovuto mettere la data sul manifesto! Perché la gente non pensasse che era derivato dal Padrino. Mentre è tutto il contrario, l’hanno capovolto […], il mio Antonio […] dice: la legge è fatta bene, sono gli uomini che si mangiano tra di loro. Dice quel che sta succedendo: la corruzione, quel che succede adesso” (“Passione civile di Eduardo”, G. Guerrieri, Il Giorno, 26 aprile 1976). E qui ritorniamo, in parte, al racconto dell’acquafrescaio: io il guappo Ciccio Cappuccio proprio non riesco a immaginarmelo come un camorrista; lo stesso vale per Antonio Barracano. Questi è piuttosto un ossimoro vivente, uno che mentre fa disfa, che “gira a vuoto” e che in buona fede fa il male. Eduardo è abilissimo a tracciare quel confine grigio e indefinito, quella nebbia spaventosa in cui tutti i personaggi apolidi di questa commedia si muovono, proprio perché orfani, instabili. Questo indefinito, questa magia che il testo contiene e gradualmente sprigiona, in parte si frantuma nella serie di addominali che Di Leva fa tra un ordine e l’altro, nei colpi di pistola, nelle movenze arroganti e senza grazia dei suoi sgherri. Ecco che questa (ri)soluzione semplicistica sollecita una serie d’interrogativi per i quali questo lavoro va considerato anche come uno spunto per un discorso più ampio sulle narrazioni (odierne) della e sulla città. Perché declinare questo modello televisivo anche a teatro? È possibile che ogni rappresentazione di Napoli converga ormai su un unico, monolitico immaginario che rende pericolosamente normale se non di moda ciò che andrebbe arginato? Ci si allinea su questo immaginario perché è ormai popolare e popolarmente accettato, con successo (di pubblico) garantito? Anche alla luce di tutto questo, dove sta il miracolo? Spunti in dissolvenza, poco prima del buio finale. (francesca saturnino)
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