Sono passate le sei quando Berlusconi arriva al teatro Politeama. È un venerdì caldo e umido di fine maggio. Quelli che il sudore ti attacca addosso la camicia, anche se il sole non è forte. Arriva scortato, si incammina inseguito dai cronisti, si infila in una porta presidiata. Quel che rimane del suo popolo è lì, estasiato come sempre, ad attenderlo, a strappare un guizzo o una parola. Resta poco, resta un migliaio di persone, i clienti, valvassori e valvassini in completo grigio scontato al grande magazzino di Toledo, e le signore e i profumi, trucchi incisivi, sorrisi da moglie di primario. E poi gli altri, trascinati in pullman, come sempre è stato e sarà, inconsapevoli e ottimisti, beneficiari di una mazzetta e una promessa, t-shirt colorate e bermuda e cori da stadio, plasmati da un televisore che non sanno esploso tempo fa. Dai palchi in velluto e dal loggione «Forza Silvio!», e anche lì è diverso da una volta, e anche lì se guardi bene occhiolini e prese in giro.
Deve saperlo bene lui, perché tutto è stato, un capo e un miliardario, un imbonitore, un processato e un condannato, un gaffeur, un viveur, un tombeur, ma mai uno stupido. Fa la sua parte, ora. Sta al gioco, umiliandosi per fine ultimo. Ha sempre pensato a vivere, ora vuol pensare a morire. Pesante, arreso nell’anima e nel corpo, ma solo agli occhi di chi vuol vedere e qui nessuno vuol vedere. Si va in scena, in replica eterna di ciò che fu, fuori tempo massimo, mentre il suggeritore esala l’ultimo respiro o scappa chissà dove. Le ovazioni iniziali, poi il popolo si appiattisce sulle sembianze del suo re dalla parlata lenta e ormai fiacca. Dov’è, per Dio!, dov’è? Si chiederebbero se provassero a vedere. Ma è la sua corte ed è una pavida corte senza regno, ora. E poi in scena, a parlar del nulla. Scompare la città, è uno sfondo lontano, è scontata la sconfitta del suo esercito anche stavolta, o forse è di proposito che agisce: gridatemelo in faccia che è finito! E se non volete ve lo grido io, non nominandovi, che di voi mi importa poco! Galleggiate pure, qui, davanti al mare e sotto il sole o altrove, gli annali non vi ricorderanno, al contrario di me, che non guarderete mai con onestà, senza il coraggio di dirmelo, che è finita.
E allora ve lo dico io. Del vostro lembo di terra non parlo, parlo di me, di quel che sono e sono stato. Di venti anni di storia. Di un paese in mio pugno in ogni suo palazzo, comandato in ogni suo minuto, che sembra assurdo ora non sia più. Delle trame ordite e andate in porto, dei tradimenti, del rumore dei nemici che mi ha inseguito, ma sempre schiacciati, li ho, e son rinato non dalle ceneri perché ceneri non furono, ma dal mio potere stesso. Fino a che la storia ha voluto e poi ha detto ora non più. L’unica a cui soccombere, e ho dovuto.
Ma cosa interessa a voi. Siete qui, orde di valletti, lacchè laccati ad applaudire me e non me, quel che fui e non quel che sono, quando mi guardo nello specchio e so che è per la storia, che devo. E non mi tiro indietro. Affanno, favello con fatica. Trascino con me il mio peso e la mia testa disadorna e senza piume, non trovo il ritmo per incalzare, per farvi infiammare; eppure voi, bugiardi, mi osannate come ieri, come nulla fosse cambiato, come se il tempo non fosse passato. Sono passati degli anni, cinque, l’ultima volta che vi ho visti qui, nella sala flegrea di quell’impero d’Oltremare che a modo mio ricostruii, certo dentro i confini ma con ugual vigore. Quanti di più eravate, all’epoca? Tre, quattromila, e in fondo milioni, era il potere a legarvi. A tenerci legati. Come me con i miei, i pochi e sinceri miei, fedeli e fidati. E io, che sapevo, allora sì, darvi quel che cercavate. Forza, potenza, vigore e piombo. E allora mi agitavo e alzavo il tiro, e il tono e il volume, e ridevo gradasso. E le mie corde vibravano e le parole pesavano per me e per chi ne aveva paura, del mio potere.
Oggi non riesco più. Ma voi, come allora, restate sotto, incantati da favole che credevate vostre ed erano solo mie. Oggi ancora, ma meno numerosi e più deboli. Non scommetterei un centesimo sui voi, che miei forse non siete mai stati. Voi eravate voi e io ero io. La storia, che oggi aspetta solo il crepuscolo per diventare tale. (riccardo rosa)
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