Fotogalleria di Giuseppe Riccardi
Circa trecento persone hanno manifestato ieri al centro di Napoli, tra via Roma e via Generale Orsini, nel quartiere Santa Lucia, per chiedere verità e giustizia sulla morte di Ugo Russo, quindicenne ammazzato da un carabiniere in borghese la notte del primo marzo scorso durante un tentativo di rapina con una pistola finta.
In occasione del prossimo anniversario dell’omicidio, i familiari e il comitato costituitosi per vigilare sull’iter processuale della vicenda hanno denunciato di non aver ancora ricevuto, tramite i propri legali, nemmeno i risultati dell’autopsia effettuata sul corpo del ragazzo. In ogni caso, la prossima settimana scadranno i termini per la chiusura delle indagini, che vedono il carabiniere indagato per omicidio volontario.
Pubblichiamo a seguire un estratto da alcune interviste che abbiamo effettuato la scorsa estate a Vincenzo Russo, padre di Ugo, in cui si raccontano la storia del giovane, della sua famiglia, e degli eventi avvenuti quella notte.
* * *
«L’ultima volta l’ho visto la sera della sua morte, alle nove, stava dal barbiere. Poi andai a casa a mangiare con mia moglie, lui se ne scese per i fatti suoi e verso mezzanotte e mezza mi vennero a chiamare. L’avevano portato all’ospedale, qualcuno l’aveva riconosciuto e si era sparsa la voce nel quartiere. Andai di corsa al Pellegrini, mi avevano detto che l’avevano sparato in petto, o alla spalla, solo dopo si è saputo che gli avevano sparato alla testa. All’ospedale trovammo una folla di persone, almeno cento. Così ogni cinque minuti arrivava una volante, gli agenti scendevano dalle macchine e andavano a posizionarsi fuori alla Rianimazione, perché già sapevano che il ragazzo era morto.
«La porta della sala si è aperta tre volte. Ogni volta il medico si affacciava ma non usciva mai, parlava da dietro al cordone dei carabinieri. La prima volta hanno chiamato me e mia moglie e ci hanno detto che la situazione era gravissima, che avevano trovato materia cerebrale fuoriuscita. La seconda volta che lo avrebbero trasportato per provare a operarlo. Quando si è aperta la porta la terza volta io non ho voluto avvicinarmi perché avevo capito che ci davano la notizia della morte. Dopodiché noi siamo entrati a vederlo e fuori è successo il casino che avete letto sui giornali, per cui una persona che ha fatto un omicidio barbaro adesso sta a casa sua tranquilla, mentre per qualcuno dei miei parenti, che ha sfogato la rabbia e ha tirato dei calci nei cestini, hanno chiesto dieci anni di galera.
«Dopo che siamo usciti dalla sala mortuaria del Pellegrini, il corpo di Ugo l’abbiamo rivisto dopo otto giorni, l’8 marzo. È stato quarantott’ore a casa, erano i giorni in cui cominciava il lockdown. Il lunedì mattina dovevamo fare la funzione in chiesa, il corteo funebre e andare al cimitero. La notte prima però vennero dalla questura a dirci che per ordine pubblico sarebbero venuti alle sette e si sarebbero portati direttamente il corpo per la sepoltura. Infatti, c’erano almeno cinquecento tra poliziotti e carabinieri quella mattina. Prima che arrivassero, però, io e alcuni parenti abbiamo preso la bara e l’abbiamo portata per il quartiere. Siamo passati fuori la chiesa, che era chiusa, abbiamo fatto un piccolo corteo senza fare la funzione. Poi io e mia moglie abbiamo seguito il carro funebre con il motorino fino al cimitero, con dietro almeno quindici moto della polizia, cinque macchine in borghese e tre blindati. Come se stessero scortando un boss.
«Il ragazzo che stava con Ugo quella sera, Nando, l’hanno preso alle quattro del mattino, a casa, tre ore dopo che è successo il fatto. Lui fin da subito ha raccontato tutto, ma i carabinieri cercavano di dissuaderlo, di non fargli raccontare tutta la dinamica. Gli dicevano: “Ma tu che ti accusi a fare di questo reato?”. Volevano risolvere tutto senza testimoni, ma lui era troppo amico di Ugo e la mattina dopo, quando l’ha chiamato il magistrato, ha raccontato tutto anche a lui. In quelle ore, nel mezzo tra l’interrogatorio con i carabinieri e quello con il magistrato, Nando è venuto da me e mi ha raccontato tutto. Ugo e Nando erano molto amici. Lui ora sta in comunità, sta scontando a Torre Annunziata. Avevano legato quando Nando era caduto in depressione perché durante una lite aveva avuto una bottiglia in faccia da un suo cugino, e Ugo l’aveva aiutato. Dopo quella storia sono diventati inseparabili. Nando mi ha detto che Ugo l’ha salvato due volte, la prima quando sono diventati amici, e la seconda quando gli ha detto di scappare, che quello era armato.
«La macchina l’avevano incrociata a piazza Sannazzaro, e avevano deciso di fare la rapina. Io sono sicuro che lui, quello che poi ha ucciso Ugo, se ne fosse accorto subito che volevano rapinarlo, d’altronde è un carabiniere, figlio di carabiniere, ha dimestichezza con queste cose. Lo hanno seguito per più di venti minuti, lui se li è portati fino a Santa Lucia. Arrivati a via Generale Orsini ha parcheggiato, prima a muso verso il marciapiede, e dopo, quando ha visto dove si erano nascosti Ugo e Nando, con il muso verso la strada. I ragazzi a quel punto hanno pensato, da incoscienti, che lui li volesse sfidare. Ugo è sceso e gli ha detto di dargli l’orologio. Lui ha cacciato la pistola e da dentro la macchina ha sparato due colpi, prendendolo al petto e alla spalla. Dopo aver fatto un volo di cinque o sei metri, Ugo si è alzato ed è andato verso Nando, che era rimasto vicino al motorino. Gli ha detto di andarsene, che quello gli aveva sparato. Nemmeno il tempo di arrivare però, che il carabiniere è sceso dalla macchina, ha fatto qualche passo, ha mirato e gli ha sparato dietro la nuca. Non c’era più nessun pericolo quando ha sparato questo terzo colpo: è stata un’esecuzione.
«A quel punto Ugo è caduto a peso morto sul motorino, tanto è vero che cadendo si è rotto un braccio. Ma il carabiniere ha continuato a sparare, un quarto e un quinto colpo, per colpire pure Nando, che è stato miracolato ed è riuscito a scappare a piedi. Tutto questo non lo sto inventando io, c’è la testimonianza di Nando e ci sono i video delle telecamere. “Battuta d’arresto”, disse il mio perito quel giorno. È il loro gergo tecnico per dire: “esecuzione”. All’ospedale si sono presi del tempo per organizzarsi, ma Ugo è morto sul colpo. È stata una “battuta d’arresto”.
«Ugo aveva deciso che non voleva andare più a scuola quando stava al primo anno delle superiori. L’avevamo iscritto al Serra [istituto tecnico commerciale, Ndr]. Furono i professori a dirci di non mandarlo più, perché dava fastidio in classe, pensava a stare con gli amici e con le ragazze; ci proposero di farlo andare solo una volta a settimana altrimenti dovevano fare la segnalazione ai servizi sociali. Eppure, io mi ricordo che quando andavo a scuola, più mi comportavo male, più le monache mi facevano uscire tardi. Per un periodo talmente che facevo casino mi facevano uscire alle otto di sera. Pure l’altro mio figlio, Alfredo, per non tenerlo davanti ai piedi, invece di farlo uscire alle cinque lo mandavano a casa all’una. La scuola è stata un peccato, perché Ugo era un ragazzo sveglio, intelligente. Andò a lavorare quasi subito dopo questa decisione. Il primo posto glielo trovò la famiglia della fidanzata, in un bar a piazza Mazzini, dalle otto del mattino alle otto di sera, prendeva cinquanta euro a settimana. Lui capiva che era pochissimo, e allora cercammo qualcosa di meglio. Lo mandammo da un amico, qui nei Quartieri Spagnoli. Usciva di casa alle dieci del mattino, faceva le consegne dei pomodori alle trattorie fino alle due. Poi veniva a mangiare e attaccava di nuovo, dalle tre alle cinque. L’anno scorso ha lavorato fino al 31 luglio, poi si è fermato perché con l’inverno il lavoro comincia a calare; avrebbe ricominciato un’altra volta in primavera. Nel frattempo mio suocero gli aveva trovato una cosa come muratore. Non ho avuto il tempo per capire bene quello che stava combinando, altrimenti l’avrei fermato. Ugo è sempre stato furbo. Se aveva fatto qualcosa di male, se aveva risposto male alla mamma o qualcosa del genere, levava occasione, non gli piaceva il conflitto. Sono sicuro che avrei potuto farlo ragionare. A Ugo non ho dovuto mai dare uno schiaffo in vita mia. Se ha fatto le tarantelle, le avrà fatte per un mese, perché prima non teneva il tempo. Di questo sono sicuro, ci metto la mano sul fuoco.
«La nostra famiglia ha sempre abitato ai Quartieri. Io qualche guaio l’ho fatto, quand’ero ragazzo. Cominciai alle scuole medie, stavo alla Pasquale Scura, avevano fatto una classe con tutte le famiglie più problematiche e infatti il più tranquillo da là è uscito mariuolo. Degli altri: chi è morto, chi si sta facendo vent’anni di galera, chi sta nel Sistema. Mio padre però è sempre stato un lavoratore, alla sua età ancora scende a lavorare, tiene sessantasette anni, è un dipendente della Provincia, fa il giardiniere. Con mia mamma hanno cresciuto cinque figli, di cui quattro femmine. Io ho fatto quattro maschi: Vincenzo, che ora ha cinque anni; Francesco, undici; Ugo; e poi Alfredo, che il mese scorso ha fatto diciotto anni. Con mia moglie ci siamo conosciuti che io avevo sedici anni e lei diciannove. Io ormai stavo tranquillo, con Alfredo e Ugo che lavoravano, e Francesco che fa una vita tutta scuola e calcetto, calcetto e scuola. Gioca in porta, ma è veramente un bambino modello. Anche Ugo era intelligente, ma non teneva voglia, però con Francesco non farò lo stesso errore, se mi dice che non vuole andare a scuola, ce lo mando con la forza.
«Era da quindici giorni che volevo parlare con Ugo e non riuscivamo. Mi era arrivata qualche voce all’orecchio, e così una domenica a pranzo dissi a mia moglie: “Chiama a Ugo, andiamoci a mangiare una pizza tutti e tre”. Solo che lui aveva già mangiato e stava dormendo. Negli stessi giorni avevo avuto un battibecco con Alfredo, che doveva andare a lavorare e non si voleva svegliare. Lui lavora in una fabbrica di borse a Casandrino, normalmente funziona che il titolare viene qui ai Quartieri con due macchine, si fanno trovare cinque o sei ragazzi e vanno a lavorare. Quel giorno Alfredo non si voleva svegliare, e il fratello piccolo, Francesco, vedendo a lui nemmeno voleva andare a scuola. Così io feci il pazzo, e nel casino ci finì pure Ugo, che però non aveva fatto niente. Lui la prese male, continuava a dire: “Io me ne vado da questa casa”, e cose del genere. Comunque, per tre-quattro giorni lo provocavo, gli dicevo: “Che è, stai ancora qua?”, ma non abbiamo avuto occasione di parlare, è stato tutto velocissimo, non potevo mai immaginare che sarebbe successa una cosa del genere.
«Mi ricordo che a Ugo, quando gli davo il motorino nel fine settimana, e gli davo il permesso di uscire pure se non teneva la patente, gli dicevo sempre: “Se ti ferma la polizia, fermati! Non scappare mai! Dagli il motorino, fattelo sequestrare. Se ti fermano, io non mi arrabbio, tu daglielo e basta!”. Questo per dire che io ho sempre prevenuto i casini nella gestione dei miei figli. Perché le ho fatte le cretinate e so che significa. In carcere ci sono stato: Cassino, San Vittore, Orvieto. Da ragazzino facevo gli scippi, poi una volta mi accusarono due rapine che non avevo fatto, appena compiuti diciotto anni. Le guardie lo sapevano che non ero stato io, ma dicevano: “Vabbuò, stai pagando tutto quello che hai fatto prima e non hai pagato”. Adesso tengo trentasette anni e ai miei figli li ho sempre terrorizzati su questo. La polizia a me non mi conosceva: era una vita che non facevo guai. Si può dire che mi hanno conosciuto nella circostanza della morte di Ugo, io la mattina scendevo a lavorare.
La storia di Davide Bifolco l’avevo seguita attraverso i telegiornali. I social non li ho mai usati, ho cominciato un po’ dopo la morte di Ugo. Adesso vorrei, come è successo per lui, che questo comitato diventasse un’associazione per i ragazzi del quartiere, per fargli capire che questa non è vita da fare, che le cose materiali non servono a niente se poi ti portano via un pezzo del cuore. Purtroppo entrare nella loro testa non è facile, anche gli amici di Ugo, io vedo che hanno avuto “il morto in casa”, ma a quell’età non so, forse è normale… ma sembra che non ti rendi conto delle cose. Forse siamo noi che non troviamo le parole giuste, forse sono loro che sono troppo orgogliosi e si sentono “grandi”, ma a me pare che la lezione di quello che è successo a Ugo non sia servita, ancora li vedi che scendono per strada a litigare: “Che guardi a fare”, “Che non guardi a fare” e cose del genere. Però questo non vuol dire che devi finire morto ammazzato, a quell’età si possono commettere degli errori. Poi dietro ai banchi del tribunale c’è scritto: “La legge è uguale per tutti”. Ma se è vero che dobbiamo avere giustizia per noi, dobbiamo averla per tutti, oppure un domani questi si sentiranno ancora più forti e lo rifaranno ancora, e ancora. Invece dobbiamo fare in modo che non possano succedere più cose del genere». (riccardo rosa)