da Napoli Monitor n. 51 / Novembre 2012
Il 25 gennaio 2012 il Senato della Repubblica ha votato per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo del 2013. È un voto storico, che se confermato alla Camera, può rappresentare un momento importante per il superamento dei manicomi giudiziari. Non è un voto casuale. È un voto che giunge dopo molte battaglie e denunce sulle condizioni di vita all’interno di queste strutture. Solo a seguito del rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sulle condizioni di vita all’interno dell’Opg di Aversa, la Commissione parlamentare di inchiesta sulla sanità, presieduta dal senatore Ignazio Marino, ha cominciato una serie di ispezioni in queste strutture. L’orrore, testimoniato dalle relazioni redatte dai carabinieri che accompagnavano la commissione e da immagini video ha destato uno sdegno unanime.
Quello che segue è il racconto di una visita effettuata nella primavera del 2010, nell’OPG di Napoli, prima che si aprisse questa improvvisa speranza. Una visita che si inseriva in un lungo percorso personale e collettivo di scrittura e militanza politica finalizzato alla chiusura e al superamento di questi luoghi della vergogna. Alcune delle persone che ho incontrato, nell’attesa di questa lotta, sono morte. Senza che nemmeno giungesse alle loro orecchie il clamore della battaglia che stavamo conducendo. Ho tenuto per me la cronaca di questa visita perché la trovavo, all’epoca, troppo personale. E anche troppo pessimista. La ritiro fuori ora, perché mai come quando sembra vicina, una meta rischia di diventare irraggiungibile.
Il volto del comandante degli agenti di polizia si accende in una sola vampata di rosso che gli porta via dal viso la falsa cordialità partenopea che ha interpretato per due ore. È una stanza vuota, al primo piano dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli. Alle pareti i murales di Felice Pignataro. Una stanza vuota piena di senso, è la stanza della coercizione. Due letti, in ferro, saldati al suolo; un vecchio materasso in gommapiuma verde; le strisce di coercizione nere, come le cinture di sicurezza di un’auto. A fermarle dei moschettoni che cedono il passo alla ruggine. Qui, in questa sala, legato, ha trascorso i giorni prima di Natale Tonino, classe 1975. Qui Rocco ha trascorso tre giorni per compensare una crisi. E se ogni tanto qualcuno ti ha inserito il pappagallo per pisciare vai bene tu.
Costantino è fumato dalla stessa sigaretta da oltre quindici anni. Sorride e fuma Costantino, ma non è proprio che sorride. È che quando apri la bocca e non hai denti, ogni smorfia pare un sorriso. Ha un pigiama azzurro che a confronto agli altri sembra un signore. A confronto di Michele, che tiene su i pantaloni con una corda e indossa, in pieno maggio, una giacca invernale, Costantino è un signore. Un signore che ha cinquantasei anni, e ne dimostra ottanta, che vive in una cella tre metri per sei, il letto inchiodato a terra, nessuna sedia, nessun tavolo, nessuna foto. Costantino è un signore, nel suo pigiama azzurro, e fa tutt’uno con la sua sigaretta che anche quando è steso a letto non spegne. Così la testa di Costantino sembra la testa di un motore di un auto che si arrende e che sbuffa fumo.
In Italia gli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) sono sei. Cinque (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia) sono gestiti completamente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), il sesto, Castiglione delle Stiviere, è una struttura gestita dalla Asl in virtù di una convenzione con il ministero della giustizia. Al 30 dicembre 2011, complessivamente, nelle sei strutture risultano presenti 1.487 internati, dei quali 95 donne.
Sono quattro sezioni, due piani, due bracci per piano, una sezione ogni braccio. Qui ci sono centodiciannove vite, che forse una volta saranno state pure storie ma oggi chi se le ricorda più? Qui ci sono centodiciannove cognomi, chiusi a due, a tre, a quattro in celle spoglie e sciatte. Ogni cognome è un fascicolo che dovremmo andare a prendere in matricola, perché non c’è uno che ricordi. Non un agente, né un infermiere, né un medico, né il direttore. Qui ogni cognome è una striscia di carta, al lato della porta della cella. Nel corridoio le celle sono una di fronte all’altra. In una fila le singole, con gli internati più “problematici”, senza nulla se non il letto e se va bene le lenzuola. Nell’altra fila quelle “multiple”, il cui privilegio sembra limitarsi a un tavolo di legno compensato e quattro sgabelli. La differenza non è di stile, è dire che puoi mangiare seduto a un tavolo o costretto per terra o sul bordo del letto. È capire a quanto di umano hai ancora diritto.
Tonino, che viene da Casoria, ci chiede di entrare a vedere se la sua cella è agibile. Dice proprio così, “dottore venite a vedere se questa cella è agibile”. Apriamo la cella. A terra un pacco di pancarré e un bicchiere di plastica. Il resto è vuoto e scritte su muri che da anni invocano una mano di pittura. Il bagno è uno sgabuzzino di un metro, senza doccia, e il letto è solito ferro verniciato arancione e materasso in gommapiuma. Tonino ha un morso sull’alluce, dice che è stato uno scarafaggio, mi mostra un buco che ha tappato con un pezzo di carta. Lo psichiatra che ci accompagna emette la sua diagnosi a un paio di metri di distanza. “Non è niente”, dice. Tonino mi ripete che la cella non è agibile, ma non solo per lui, “dottò, non è agibile per nessuno”. E ha ragione. Anche quando mi dice che il problema non è lo scarafaggio, non è il letto e nemmeno questo cazzo di materasso di gommapiuma che è senza gomma e senza piuma; e forse non è nemmeno il tavolo che non c’è. È il blindato che la sera chiudono, la sera del carcere che è alle 18:30, il blindato che si accompagna già alla porta con le sbarre, che se lo tenessero aperto non è che uno scappa. E invece lo chiudono, e in quella cella di tre metri per quattro, quando chiudi il blindato, anche il resto del mondo si fa più piccolo. E vorresti una sedia, vorresti un tavolo, un televisore, ma ti rimangono solo le scritte sui muri. E questa non è una vita agibile.
Proseguiamo, con questo strano sciame di internati, agenti e psichiatri, e quella eccessiva bonarietà del comandante degli agenti, quella che poi gli passa ma che adesso ostenta sereno. Michele, che viene da Benevento, di un anno se n’è fatto appena uno, e già ha beccato nove mesi di proroga. Ma non è finita. Tira fuori una a una le sue carte, le sue sentenze, Michele che non sa leggere e si fida del “prima o poi” che ne uccide più dell’ergastolo. Tra i fogli che mi mostra, uno è la sentenza del giudice di pace che lo condanna a pagare trecento euro. Il suo avvocato gli ha fatto causa e ha ottenuto che un giudice lo condannasse a pagare il suo onorario. Sì. Non avete letto male. Michele è un sofferente psichico, internato per un reato non grave, ha intrapreso un percorso detentivo che forse non avrà mai fine, tiene fermi i pantaloni con una corda e indossa pantofole di muffa e cartone. E il suo avvocato gli ha fatto causa, perché Michele è senza soldi e non l’ha pagato. Ti doveva tirare fuori di lì, e invece ecco che sei sotto di un anno di vita e di trecento euro.
L’istituto delle misure di sicurezza è espressione del sistema dualistico presente all’interno del codice penale. I destinatari delle misure di sicurezza sono i soggetti sofferenti psichici che hanno commesso un reato e che siano ritenuti socialmente pericolosi. Il metodo di accertamento della pericolosità diffuso nella prassi di tipo intuitivo spesso risulta soggettivamente arbitrario e poco affidabile. Si può essere socialmente pericolosi se non si ha reddito, famiglia, una casa dove andare. E poiché la misura di sicurezza può essere prorogata infinite volte, ecco che puoi rimanere in OPG tutta la vita anche se hai commesso un reato minore. Almeno il quaranta per cento degli internati in OPG è in queste condizioni.
Passiamo nei corridoi tra gli sguardi a punto interrogativo degli internati. Uno, in canottiera, ha tra il collo e la spalla una gobba callosa. È enorme, ma completamente intontito dagli psicofarmaci. È qui da due anni. Nell’altra vita portava a spalla il carro dei Gigli, nelle feste sacre e profane di Nola. F. è un ragazzo soprappeso (come molti, non è il cibo, sono gli psicofarmaci) che conosce una sola frase, “hai una sigaretta, hai una sigaretta”, la chiede a tutti e poi ricomincia nello stesso ordine. Qui il mondo è la tua cella e l’universo un corridoio.
La richiesta è televisione, televisione, televisione, perché è tra i privilegi non scritti nel regolamento. Ma qui, quando qualcuno la rompe, non vi è modo di riparare o di comprare. E quindi solo alcuni hanno il privilegio. E tu che fai lo snob che la televisione non la vedi, che magari ti fanno schifo i reality, che se ti dico isola pensi alla Morante, non sai che in un orizzonte di cemento quelle luci danno alla mia vita un altro senso. Ed è questo che Tonino dice, che non sa la politica, che non chiede nemmeno libertà. Voglio la televisione, così la sera non muoio nel silenzio e che magari mi vedo anche le donne nude, in televisione, che non c’è mica scritto nel regolamento che devo dare fondo solo alla mia fantasia.
L’ospedale psichiatrico giudiziario è un carcere. Non è un’affermazione, è una realtà amministrativa. Gli agenti, il direttore, il personale educativo dipendono dal ministero della giustizia. Anche qui troneggia il blu polizia penitenziaria. L’ospedale psichiatrico giudiziario è un manicomio. Non è un’affermazione, è una realtà penale. Il codice penale lo chiama così, manicomio giudiziario. Prima manicomio e carcere erano una cosa sola. Ora, amministrativamente, si sono separati. All’Asl il manicomio e al ministero il carcere. Ma è come tracciare una linea di confine su un fondo di sabbia.
Il direttore mi spiega che è arrivato da poco, che c’è stata la riforma, che il tempo è poco che stanno lavorando. Gli psichiatri mi spiegano c’è stata la riforma, che loro sono lì da poco, ma stiamo lavorando. Il comandante degli agenti non mi spiega niente, sorride e dice va bene, allora abbiamo finito. Abbiamo visto il secondo e il terzo piano e le quattro sezioni e ora abbiamo finito. Ma c’è una stanza che non abbiamo visto. Un stanza vuota piena di dolore, è la stanza della coercizione. Due letti, in ferro, saldati al suolo, un vecchio materasso in gommapiuma verde, le strisce di coercizione nere…
Il sole batte come se fosse già estate. Noi siamo fuori, mentre dentro tra poco chiuderanno i blindati. L’auto è un pezzo di ferro incandescente. Mentre guido, il nodo della cravatta mi fa soffocare, e poi se ci metti anche il sudore e questo traffico, mi sembra naturale cedere il passo alla rabbia. Sono anni, sono passati trent’anni e questo manicomio è ancora qui. È stato trasferito, ma è di nuovo qui. E mi chiedo che senso abbia, questa raccolta di dolore e tristezza. Che senso ha questa battaglia, questo mulino senza vento.
Attraverso il grigio di Scampia, ho percorso solo un chilometro ma sono lontano anni luce dalle storie e dai volti che mi lascio alle spalle. E mi fa rabbia, come sempre, una rabbia che metto da parte ogni volta. Per ogni ingiustizia che non riesci a sanare, ma soprattutto che non sai raccontare. Perché ti batti per un televisore, per un programma che renda meno ottuso il dolore. È come quando hai voglia di un amico e di una birra, ma tutti sono impegnati altrove. Quando ogni numero che componi risulta occupato. Come un’equazione scomposta che non si lascia imbrogliare. Allora metti da parte. Ogni piccolo momento di rabbia. Un patrimonio di immagini, di indecenze, di vite disperse, di desideri che non hai mai conosciuto. Un patrimonio di rabbia incandescente, alla luce di un sole che non sai raccontare. (dario stefano dell’aquila)
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