Aperto il 5 giugno dal concerto in piazza Plebiscito di Franco Battiato, il Napoli Teatro Festival, quest’anno diretto da Ruggero Cappuccio, è giunto ormai al termine e si può fare un primo bilancio. Questa edizione, favorita dai prezzi contenuti degli spettacoli, ha registrato un indubbio successo di pubblico. E ciò non è irrilevante soprattutto se si pensa alla qualità dell’offerta, che ha riguardato non solo lavori di punta della scena nazionale e internazionale – da Moscato a Peter Brook, da Capuano alla Lidell, da Nekrosius a Dimitri Papaioannou e Jan Fabre, solo per citare qualche nome – ma anche conferenze, incontri, reading di poesia, laboratori – come quelli con i giovani fotografi allievi di Biasiucci ai Vergini, di Nekrosius sul “Don Chisciotte” al Teatro Trianon Viviani, di Brunello Leone sull’antica arte delle guarattelle – che hanno coinvolti giovani della periferia metropolitana e dei quartieri popolari della città.
I titoli sono circa novanta e abbiamo scelto di seguire alcune conferenze e spettacoli della scena internazionale che sarà difficile rivedere a Napoli nella prossima stagione, partendo innanzitutto dall’affollata conferenza-lezione di Peter Brook nel foyer del San Carlo: il grande maestro dell’avanguardia teatrale (novantadue anni) ha spiegato in modo semplice la sua idea di teatro partendo dall’attualità di Shakespeare che, a suo avviso, costituisce un patrimonio assoluto dell’umanità; un tesoro che ci consente ancora oggi di comprendere il presente, la vita e lo scontro tra i poteri nella società contemporanea. Non a caso, il suo prossimo spettacolo Battlefield – parte del poema indù Mahabharata che portò in scena negli anni Ottanta – è un ambizioso progetto che racconta di una lotta all’interno di una famiglia che procurò milioni di morti. L’allusione alla violenza distruttrice e sanguinaria del nostro tempo è molto chiara: dal Medio Oriente all’Afghanistan a parte dell’Occidente, tutto un mondo oggi è avvolto in una spirale di sangue che dietro si sé lascia solo macerie. Forse solo il teatro, afferma Brook, con la sua alterità può salvarci da questa barbarie, perché “lì abbiamo ancora la possibilità di continuare a vivere”.
L’utopia visionaria di Brook non ama i deragliamenti, gli sconfinamenti, le contaminazioni linguistiche, si svolge tutta all’interno dell’esperienza del teatro. Questa allusione a una realtà apocalittica, a un mondo sotto il dominio dalla violenza e dalla morte, in fondo è sembrato anche il filo rosso che lega, in modo sotterraneo, gli spettacoli di Lidell, Papaioannou e Fabre. A differenza di Brook, i tre autori operano però ai confini della scena, contaminando linguaggi espressivi diversi: dalla danza al teatro, dall’arte figurativa alla poesia, alla musica.
Tuttavia l’impressione generale è che la grande attesa per questi loro recenti lavori sia stata solo in parte ripagata. La Liddell, che qualche hanno fa suscitò a Vicenza le ire dei vescovi e di Salvini per un suo provocatorio spettacolo, al Politeama ha presentato Genesis 6, 6-7, un lavoro ispirato all’Antico Testamento e al mito di Medea. Ma stentiamo a scorgere in questa messinscena, che si avvale degli undici bravissimi attori della sua compagnia, uno sfondo davvero trasgressivo; pur rispecchiando i noti versetti del testo biblico e l’allegorica violenza della ritualità sacra, ambigue appaiono all’inizio le parole sulla guerra, come pure lo sguardo su un Dio “feroce” che si pente della sua stessa creazione e promette la distruzione dell’umanità che egli stesso ha generato.
All’inizio colpisce poi la grande immagine video di una circoncisione che, com’è noto, fa riferimento al patto tra Iddio e Abramo: “Osserverai il mio patto, tu e i tuoi discendenti nel corso delle loro generazioni”. Non mancano scene di lieve poesia – come il bambino con in testa una corona di spine e il pezzo di pane che consuma alludendo al sacramento eucaristico – ma l’impressione generale è che l’eccesso di estetizzazione della visione – il cavallo che improvvisamente scende dall’alto con otto zampe o il fanciullo che abbraccia il Kalashnikov – non giovi alla messinscena che solo raramente sfonda il muro della finzione.
The Great Tamer (Il grande domatore), lo spettacolo di Papaioannou andato in scena al Politeama, è la terza parte di una trilogia iniziata cinque anni fa con Primal Mater, cui seguì, nel 2004, Still Life, sulle tracce di Albert Camus. Ispirato all’Arte povera e a Kounellis, lo spettacolo è una messinscena scarna e grigia che allude al mito di Persefone, costretta a vivere sei mesi nell’oltretomba e sei mesi sulla terra. Il regista gioca sulla visionarietà delle immagini, sul rapporto dialettico tra suolo e sottosuolo, tra vita e morte, con giovani attori che improvvisamente riemergono con impossibili movimenti da pedane mobili, lasciando sospesi frammenti di corpo, mani e volti, quasi a indicare l’eterna lotta dell’uomo con una natura ostile. In questo viaggio nel tempo e nella storia l’uomo è alla continua ricerca di se stesso; cerca l’Altro, una condivisione e una spiritualità che ritroverà solo dopo un lungo e tortuoso cammino.
Le azioni fisiche degli attori – molto acrobatiche e atletiche – danno talvolta l’impressione di contraddire l’iniziale ispirazione all’Arte Povera. Ed è un peccato perché la pièce, sul confine tra teatro e danza, trova le sue espressioni più poetiche proprio quando il movimento scenico è lento e l’azione si riduce all’essenziale mantenendosi lontana da eccessi spettacolari, come avviene quando l’uomo è alle prese con una scarpa che non riesce a strappare dal sottosuolo.
Più complessa l’operazione di Jan Fabre. Belgian Rules/Belgium Rules. Uno spettacolo di quattr’ore, feroce satira sul Belgio, sulla sua storia, sulle regole e sui miti dei suoi abitanti ossessionati dal nazionalismo, dal bere e dal conformismo delle idee e dei comportamenti: le regole appunto, che non sono altro che l’espressione di un potere chiuso, violento e oppressivo. La forza di Fabre è nella fluidità delle azioni, in un gioco scenico capace di sostenere un ritmo incalzante in cui si avvertono echi felliniani e, a tratti, del teatro danza di Pina Bausch. Siamo in ogni caso lontani da una drammaturgia dell’attore, da quel teatro, pensando a Bene, inteso come un processo di conoscenza del comportamento attoriale e della sua vitale teatralità. Qui la parte rilevante la assumono gli sconfinamenti, le contaminazioni artistiche – che vanno dai coniugi arnolfini dipinti da Van Eyck alla Lezione di anatomia di Rembrandt, dagli uomini con la bombetta e gli ombrelli di Magritte agli scheletri di Ensor. Anche se un po’ datate, non mancano anche qui provocazioni “nudiste”, ma la messinscena, nonostante inutili didascalismi e intenti programmatici alquanto discutibili (“il teatro dell’immagine è il teatro della libertà”), alla fine, soprattutto quando insiste con ironia sulle regole di quella nazione, appare in qualche modo credibile, per l’evidente allusione (tutta politica) al pensiero unico e a un modello repressivo che è ormai la cifra non solo del Belgio ma dell’intero mondo globalizzato. (antonio grieco)