Luciano Caldore ha conosciuto a Napoli anni di enorme successo. Le sue canzoni rimbalzavano tra radio e televisioni private. Telecapri trasmetteva continuamente uno dei suoi due film. Quello che colpì allora, anche qualche critico “serio”, erano la forza e il timbro della sua voce. Le ragazzine impazzivano per lui, cosa che oggi accade di nuovo, nonostante la sua carriera abbia avuto un momento più che difficile durato qualche anno. E nonostante oggi non sia più un ventenne – ha trentasette anni – in tante farebbero ancora di tutto per avere il suo numero di telefono.
Si tratta di una storia comune per i cantanti neomelodici. Luciano spiega in maniera efficace cosa significa sentirsi divo, aggrapparsi a qualcosa e avere paura che dopo poco possa essere tutto sparito. In realtà la musica neomelodica, con i suoi cantanti, i suoi programmi televisivi, le sue radio, i suoi video e le sue feste, è in questo senso un manifesto. Arte di arrangiarsi, si dice, ma è anche altro. Desiderio di affermazione, forse, che non è nemmeno corsa alla fama, né alla fame. È una intrinseca e probabilmente in altri modi irrealizzabile voglia di riuscire, di essere qualcuno: un calciatore o un cantante? “Quello che viene meglio!”, è stata in fondo la scelta di Luciano. Non è avere ville e macchine, perché raramente ci riesci con questo tipo di arte minore, ma piuttosto avere la città ai tuoi piedi, questo sì, anche solo per pochi anni, e finire a casa a cambiare i pannolini a un figlio avuto per troppo amore e voglia di normalità. E poi di nuovo l’anormalità di prima, cercata a tutti i costi, perché se si può essere il migliore è giusto esserlo, e allora di nuovo quelle corse in macchina, saltare da un matrimonio all’altro per cantare sempre le stesse canzoni, le piazze piene e gli autografi, gli abbracci dei fan.
Sono sempre stato uno tranquillo, è il mio carattere. Già prima di avere successo, da bambino, e da ragazzino poi, non ho mai creato problemi, anche grazie all’educazione che mi hanno dato i miei. Dopo, mi è stato abbastanza facile tenere sempre la testa sulle spalle e i piedi per terra, nonostante tutto quello che mi è successo. Quando le cose iniziarono ad andare veramente bene, si cominciò a creare il personaggio, il bello, quello che piaceva alle donne e così via, e misero in giro un po’ di voci, che per chi mi conosce sono cose da riderci sopra. Dissero anche che ero gay, e fin qui, pazienza… poi qualcuno cominciò a parlare di problemi con la droga, mentre tutti lo sanno che io se mi fumo una sigaretta ogni tanto è pure assai. Anche nei divertimenti, anche quando potevo avere quello che volevo, il massimo è stato andare in birreria con gli amici, tre o quattro birre quando proprio si esagerava.
Quando ero piccolo ho vissuto a Scampia, anche se sono originario del Mercato, ‘ncopp’ e mura, dove la mattina a darci la sveglia erano quelli che venivano a vendere il pesce. Era bello, era il cuore di Napoli. Mio padre lavorava al bar Carraturo, un famoso bar napoletano, mia mamma faceva la casalinga, e non ce la passavamo malissimo. Anche papà aveva una bella voce, infatti è stato quello che più mi ha incoraggiato ad andare avanti. Dovette abbandonare che ancora era giovane, per un’operazione alle tonsille, ma chi lo ha sentito cantare dice che era bravo. Nei quartieri popolari, quando parli di musica, parli di canzone neomelodica. È quello che ascolta la gente, è quello che racconta le loro storie, i loro sentimenti, i loro problemi. Lì un genitore sa che la musica può essere una strada buona per il figlio, e così per molti è un sogno vedere il proprio figlio cantare. Comunque, quando avevo sette anni lasciammo il centro di Napoli per trasferirci a Scampia, a causa del terremoto, che in quegli anni ha cambiato la vita di tutti i napoletani. Negli anni Ottanta, quando Scampia si cominciò a riempire, sembrava un’enorme torre di Babele, piena zeppa di persone che arrivavano dalle parti più diverse di Napoli, e che avevano anche abitudini diverse. Era una cosa affascinante per un ragazzino, e io nel frattempo stavo crescendo come ogni mamma vorrebbe: andavo a scuola – ho fatto fino alla terza media, poi la musica ha preso pian piano tutto il mio tempo –, in chiesa, all’oratorio, giocavo a pallone, e stavo con i miei amici.
A giocare ero bravo, qualcuno dice che se non avessi fatto il cantante avrei potuto diventare un calciatore professionista. Giocavo in una squadra che si chiamava “Poggioreale est”. E mi ricordo che c’erano delle sfide accesissime con le squadre degli altri quartieri: al campo dell’Italsider, a Bagnoli, ci stava Fabio Cannavaro, che è mio coetaneo, e ancora più bravo di Cannavaro era Ciro Caruso, che ha giocato con il Napoli ma per colpa degli infortuni non ha raccolto quanto poteva, perché veramente era un fenomeno. Comunque anche io me la cavavo, giocavo in difesa, terzino destro, tenevo fiato e gambe, e potevo fare pure il centrale. Erano gli anni di Maradona a Napoli, e noi riuscivamo pure a stare in campo a fare i raccattapalle. Insomma, fin quando tenevo dodici-tredici anni la mia vita si divideva tra il pallone e la musica.
A casa avevo sempre cantato, registravo le cassette da quando ero piccolo, e ogni tanto mi facevano cantare al matrimonio della zia, della cugina, e così via. Iniziai a fare le cose più seriamente quando avevo tredici anni, e mia zia che faceva l’infermiera all’Elena d’Aosta chiamò mio padre per farmi fare un concorso organizzato proprio dall’ospedale. Non solo vinsi, ma raccolsi complimenti da tutti, soprattutto furono sorpresi che avevo cantato una canzone di Massimo Ranieri, Perdere l’amore, che effettivamente è una canzone difficile, nemmeno troppo adatta alla voce di un bambino. Ma Ranieri era già il mio grande modello, perciò per me fu naturale scegliere quella. Tra i vari complimenti ebbi quello del maestro Peppe Russo, che è un grande autore di canzoni napoletane, ed era stato proprio quello che anni prima aveva scoperto Ranieri. Disse che gli facevo tornare in mente il modo in cui cantava lui quando era ragazzino. Comunque, dopo quel concorso cominciai a pensare che potevo veramente fare il cantante, e non molto tempo dopo incisi il primo album, un trentatre giri con la “Mea sud”. Sbagliarono pure il nome sulla copertina, scrissero Gino Caldore, ma per me fu molto bello, perché sentivo che avevo trovato la mia strada.
A quell’epoca giravo per strada con le orecchie appizzate, per vedere se nei vicoli, dai bassi, dai balconi, dalle macchine stavano sentendo le mie canzoni. Poi mi chiamava a casa il mio allenatore di calcio, Maurizio Guerra, facendo finta di essere un impresario musicale, e mi faceva delle finte proposte chiedendomi: “Ma tu sei proprio sicuro che vuoi prendere questa strada? Guarda che è un mondo difficile, devi essere convinto…”, e dato che io rispondevo sempre di sì, che cantare era quello che volevo fare, si mise l’anima in pace, e capì che non c’era da insistere sul pallone. L’album non ebbe un grande successo, anche perché ero un ragazzino e non avevo il mio pubblico, però lo portavamo io e mio padre alle radio libere, dove faceva qualche passaggio. Mi piaceva il fatto che cominciavo a cantare in pubblico, ancora oggi sento che dal vivo sono sempre stato più bravo che in sala. All’epoca, quando mi esibivo, facevo anche le canzoni di Massimo Ranieri, perché il mio repertorio era limitato. Allo stesso tempo cominciai a frequentare la Galleria, dove andavano tutti i cantanti per farsi conoscere. Era un’altra Babele là: ci stavano gli artisti, gli impresari, e ci si incontrava, ci si conosceva e pian piano alcuni di loro cominciarono a inserirmi nei calendari. In questo modo ho cominciato a cantare alle feste di piazza. Allora però avevo paura, prima di cominciare, anche perché essendo un ragazzino di solito uscivo per primo, e nessun cantante vuole uscire per primo quando si fa una serata con diverse voci.
Intorno al ’96 le cose cominciarono ad andare veramente bene, e me ne resi conto quando feci il primo concerto, a Ditellandia Park, un parco divertimenti che sta nella zona di Mondragone. Quella è stata una delle più grandi emozioni della mia vita artistica, ma anche una delle più grandi paure, perché mi fecero uno scherzo che non dimenticherò mai. Da qualche mese avevo cominciato a pubblicizzare questa data nelle trasmissioni che facevo sui canali privati locali, in particolare su un’emittente che si chiamava Videoteam Italia. La trasmissione era molto seguita, facevamo mille telefonate a sera in quasi cinque ore di live. Insomma, avendone parlato per diversi mesi ero fiducioso per questa serata, che era il 18 agosto, ancora me lo ricordo. Quando arrivò il momento, prima di partire per Ditellandia, io stavo con un amico e con il mio manager, Gennaro Pennino, che mi davano solo brutte notizie. Mi dicevano che c’erano pochissime persone, che la serata sarebbe stata un fiasco, e che forse non era nemmeno il caso che cantassi davanti a cinquanta persone. Io ero un po’ avvilito, decidemmo che ci saremmo andati comunque e sarei uscito sul palco per scusarmi. Così ci mettemmo in macchina e quando arrivammo là troviamo il parcheggio pieno di macchine, una cosa incredibile. Nemmeno il tempo di rendermi conto, che sento il boato della folla che mi aveva visto arrivare, un casino che non poteva che essere per me: altro che cinquanta persone, ce n’erano seimila! La gente si era arrampicata sugli scivoli del parco per vedermi, mentre Gennaro e tutti gli altri che avevano fatto lo scherzo si schiattavano di risate. Fu là che capii quanto il concerto dal vivo sia una delle cose più belle di questo mestiere, che cosa vuol dire il pubblico che ti chiama per i bis quando tu hai fatto tutto il repertorio, che all’epoca era di una dozzina di pezzi, e non sai più che cosa cantare per farli contenti.
Dopo quella volta cominciammo a organizzare concerti più grandi. Nel ’97 facemmo il Palapartenope, e anche lì seimila persone. Poi il Teatro Roma a Portici, e tutta una serie di eventi dove facevamo più biglietti della capienza disponibile. A Portici mettemmo tremila persone in un teatro che ne poteva contenere duemila. E poi c’erano le donne, le ragazze che impazzivano per me: devo dire la verità che, per fortuna, nella mia vita, anche prima del successo non ho mai avuto problemi di questo tipo. Diciamo che non mi sono mai mancate, però la differenza si vedeva. Poi ho conosciuto mia moglie, proprio nel ’97 e mi sono fermato. Dopo tre anni ci siamo sposati e sono arrivati due figli, che oggi sono la ragione della mia vita. Mia figlia è molto brava a cantare, però ha solo dieci anni, e io non voglio condizionare nessuno. La prima cosa che deve fare è studiare, la seconda è decidere da sola quello che vuole fare. Per adesso è gelosissima, molto più di mia moglie, che con gli anni ci ha fatto l’abitudine, perché sa che il mio pubblico è anche un pubblico femminile, e quindi capisce, anche se trova il rossetto sulla camicia, che a un concerto una fan può abbracciarmi e darmi un bacio, ma la cosa finisce lì. Certo, se vede che c’è qualcuno più invadente o che insiste, non me la fa passare liscia, ma il peggio è mia figlia, che viene pure a controllare quello che faccio su facebook.
Nel 1998 ho fatto l’album che mi ha consacrato definitivamente, Stop, dove c’era anche la canzone che mi ha portato a fare il primo film, Pazzo d’amore. Era il successo che aspettavo – ho cominciato a tredici anni, e nel frattempo ne avevo compiuti ventiquattro – però se dovessi dire che ero preparato a tutto quello che è successo, direi una bugia. La gente mi fermava per strada, ma non più come prima, erano decine di persone insieme, pure se uscivo per prendere una birra con gli amici trovavo le folle fuori al pub che volevano farsi le foto con me, e alle serate c’erano scene di delirio. Uscivo spesso anche in televisione, non solo quelle locali, ma a livello nazionale, al Maurizio Costanzo show, e dopo anche sulla Rai, con La vita in diretta soprattutto. Tutto veniva facile, nel rapporto con il pubblico, ma anche nelle cose tecniche; per esempio, c’era una facilità incredibile nel trovare canzoni, e autori importanti come Enzo Caradonna venivano a cercarmi e mi regalavano i pezzi. Stessa cosa avvenne con Ciro Ricci, che non scriveva mai canzoni per nessuno, e a me diede il testo di Insieme io e te, dicendo che quella canzone era perfetta per me, e dovevo farla io. La cosa bella di quegli anni fu leggere in giro, anche da critici importanti, che ero riuscito a conquistare un pubblico che anche gli altri grandi della musica neomelodica, che poi erano quelli che sentivo io quando ero ragazzo, Finizio, Zappulla, Mauro Nardi, non erano riusciti mai a coinvolgere. Parlo dei ragazzi del Vomero, di Posillipo, una cosa che prima di allora era riuscita solo a Nino D’Angelo. Proprio a Posillipo facevo molte serate, mi chiamavano per fare le feste al “Valentino”, al “Virgilio”, soprattutto cene spettacolo, e si vedeva che non c’erano solo ragazzi dei quartieri popolari, anzi era bello perché si mescolavano con l’altra Napoli, quella “bene”, con cui difficilmente venivano in contatto. Insomma, tra il ’98 e il 2000 ho lavorato tantissimo, facevo anche settecento flash all’anno, che sarebbero le apparizioni che fai in giro, che siano concerti o feste di compleanno. E questo fenomeno – non solo il mio, ma di tutta la musica neomelodica – cominciò a interessare a livello nazionale: non riuscivano a credere che uno potesse esibirsi più di cinquecento volte all’anno.
Quando hai successo vieni avvicinato da tante persone, sta a te essere bravo a mantenere le distanze. Dovunque ho cantato non ho mai chiesto il documento a nessuno. Ho fatto le foto come le ho fatte con tutti, ma sentire certe cose, vedere un genere musicale associato a un fenomeno come la camorra mi fa male, come artista e come napoletano. Per quanto mi riguarda la strada verso il successo è arrivata da sé, dopo un periodo in cui ho lavorato e mi sono impegnato molto. I film, per esempio, mi aiutarono, perché la gente in quel momento aveva fame di vedermi, oltre che di sentirmi cantare. Facemmo nel ’98 Pazzo d’amore e nel ’99 T’amo e t’amerò, prodotto da Ninì Grassia, che ha prodotto anche i film di D’Angelo e D’Alessio, e purtroppo è scomparso da poco. Certo, quando li rivedo penso che avrebbero potuto venire meglio, se ci fossero state vicino a me le persone disposte a insegnarmi certe cose, ma anche il tempo necessario a imparare. Però all’epoca bisognava sfruttare il momento, e il personaggio, non a caso abbiamo fatto due film in due anni. Poi ognuno può essere più o meno bravo a fare certe cose. Io per esempio quando sto in sala, alle volte dimentico tutto quello che ho fatto in passato, mi sento inadeguato, mi vengono le crisi. Può capitare a tutti la giornata storta in cui non riesci a cantare, io invece insisto, e tutto diventa ancora più difficile. Anche se poi ho letto che questa è una cosa che succede a tutti i cantanti e che una volta Michael Jackson ha praticamente distrutto una sala per una crisi di questo tipo.
Durante quei tre anni di grande successo, mi ero abituato a un certo tipo di vita, si può dire che in città avevo raggiunto lo stesso successo di D’Alessio, che stava raccogliendo la seconda ondata, quella che l’ha lanciato verso il resto d’Italia, quando fece Cient’anne con Mario Merola. Andammo anche a girare dei video a Parigi, sotto la torre Eiffel, a Eurodisney, fu una delle settimane più belle della mia vita, rimasi sconvolto da quanto era bella Parigi. A un certo punto, quando ero proprio all’apice del successo, incontrai alcuni produttori di Roma. La promessa che mi fecero, e che fu determinante per farmi accettare, era che mi avrebbero portato a San Remo, che avrebbero investito su di me, perché allora pensare che avrei potuto avere un successo nazionale non era una cretinata, e io ci ho creduto.
Le cose non andarono così, anzi, negli anni cominciai a lavorare sempre meno, a fare meno apparizioni e a perdere una parte di quel pubblico che mi aveva portato a sentirmi il padreterno. Il mio carattere però è calmo, riflessivo, e allora più che disperarmi cominciai a pensare quali potevano essere stati gli errori, le ragioni di tutto quello che stava accadendo. Nonostante tutto è stato un periodo veramente difficile, in cui sono andato anche in depressione. Non ho mai realmente perso la testa, soprattutto grazie all’aiuto di mia moglie e della famiglia. Però è veramente brutto, soprattutto quando incontri la gente per strada, che ti dice: «Ma com’è, non stai lavorando più? Tu andavi così forte! Devi tornare quello di una volta!», come se queste cose dipendessero solo da te. Quando poi ci ho pensato, ho capito che è una cosa che succede a tutti, è successa a Morandi, che per decenni è stato il numero uno, poi per anni non ha più lavorato perché sono arrivati altri cantanti, però se sei bravo alla fine ti ritrovi. Così ho fatto pure io, soprattutto da quando ho incontrato Angelo Coppola, che è diventato il mio produttore, e ho ricominciato a lavorare. Oggi le cose vanno meglio, torniamo a fare concerti affollatissimi, a scappare in macchina alla fine delle serate perché la gente non vuole lasciarci andare, anzi proprio Angelo l’altra volta a Frattamaggiore si è fatto male, perché mentre correvamo per raggiungere la macchina è scivolato ed è andato a sbattere contro un camion. Anche nei testi, se ci fai caso, io ero arrivato a un certo punto in cui potevo permettermi di sperimentare qualcosa, di provare il testo più profondo, più complesso, mentre oggi ho dovuto trovare l’umiltà per dare al pubblico quello che ho sempre dato, quello che loro vogliono.
Oggi la maggior parte delle serate si fanno in provincia, anche perché non ci sono più le feste di quartiere, probabilmente mancano le strutture, o forse perché c’è tanta gente che dal centro di Napoli si è spostata in periferia. Certo, ci sono sempre quelle che sono le roccaforti di un cantante, per quanto riguarda me, per esempio, i Quartieri spagnoli o la Sanità, però anche in provincia, oppure a Caserta, sono seguito bene. Oggi ci sono le ragazzine più giovani, che magari fino a qualche anno fa non sapevano nemmeno chi ero. In più sto ritrovando il pubblico di prima che ora è cresciuto. E sto lavorando per trovare un gruppo per le uscite. Per il momento ho ricominciato a fare i live con le basi, ma dall’anno prossimo usciremo con la band, ci saranno pure le ballerine. Però è anche vero, e la mia storia me lo insegna, che progetti a lungo termine in questo campo non se ne possono fare, perché oggi va bene, domani può andare male. L’importante è che qualcosa è tornato a muoversi, e che il percorso, a quanto pare, sia di nuovo quello buono. (riccardo rosa)