
A volte il citofono si inceppa e il suono che ne vien fuori è così forte che sveglia tutti i vicini. In quel momento vorresti solo scappare, correre via come i bambini quando hanno fatto una bravata. Invece non ti muovi, rimani ferma e guardi la tua compagna. Altre volte il citofono non suona e basta. Dentro i palazzi, invece, bisogna fare attenzione al rumore, e se c’è un cane in casa diventa difficile parlare: «Signora!». «Signora! Mi sente?». Ma il cane abbaia così forte che non arriva risposta. Certe persone non rispondono affatto, anche nel silenzio assoluto. Con altri, invece, è piacevole conversare. «La gente ha bisogno di parlare – mi disse una volta Marta, un‘assistente sociale che si è battezzata dopo la morte della zia –, per questo hanno bisogno della Bibbia. Le persone oggi sono tristi, infelici, senza speranza, è un nostro dovere parlare della Verità».
Due settimane fa io e alcune sorelle abbiamo predicato a Monterusciello, una frazione del comune di Pozzuoli. Siamo entrate in un parco pieno di palazzi alti, grigi e gialli. Mentre attraversavamo i viali dei condomini ci guardavano dall’alto e alcuni chiudevano la finestra. Dopo un paio di minuti siamo arrivate fuori a un portone; una rampa di scale ci separava dall’entrata. «È chiuso!», ha detto Franca, una sorella anziana che da anni collabora con un ente per la protezione animali. Mentre pensavamo a come fare, un signore è sceso e ha aperto la porta. «Buongiorno – ha detto guardando in basso –, dovete entrare?». All’interno del palazzo silenzio, e un lungo corridoio bianco sporco che ci ha condotto alla prima porta. Alzando lo sguardo, le scalinate grigie sembravano infinite, ma contandole erano soltanto sei. «Noi andiamo sopra», ha detto Martina prendendomi la mano e separandomi dalle altre.
Martina ha vent’anni, è una ragazza riservata e tranquilla, studia per diventare segretaria; la conosco da quando era bambina. Ogni volta che si bussa a una porta il cuore batte forte, inizi a sudare e ti si secca un po’ la voce. Scalino dopo scalino, l’ansia aumenta. Martina stringe forte il porta-rivista e con il cellulare apre la Bibbia digitale. La porta che abbiamo di fronte è di un marrone lucido con il grosso pomello dorato. In alto a destra si legge su un piccolo adesivo: “Per i testimoni di Geova. Non bussate siamo cattolici. Vergine Maria benedite questa casa e liberateci da ogni male”. Martina bussa lo stesso. Dopo un po’ il rumore di passi che si avvicinano all’uscio si interrompe: qualcuno ci sta fissando dallo spioncino. Io e Martina guardiamo la porta accennando un piccolo sorriso. «Chi è?», dice a un tratto la voce dall’altra parte. «Ciao, mi chiamo Martina, sono una testimone di Geova, come sta?». «In questa casa non c’è nessuno», risponde severa la voce. Ci guardiamo alzando le spalle e ci scappa una risata.
Qualche volta le conversazioni durano anche a lungo. A tanti piace polemizzare; anche proporci delle nuove religioni va bene. «Dio non esiste – mi disse una volta un padrone di casa –, quello che vediamo è tutto frutto di un sogno, quando moriremo saremo finalmente svegli». Tanti altri invece non ci sopportano proprio. «Una volta un signore mi sputò in faccia – mi disse Lorena, una sorella che da anni si impegna nell’opera di predicazione, nonostante le continue dialisi –, non iniziai nemmeno a parlare, mi attaccò direttamente».
Naturalmente non tutte le porte rimangono chiuse, può capitare che ne basti solo una per tornare a casa con un senso di appagamento. Rachele, una sorella di trent’anni, trasferitasi in Italia per scappare dalla guerra civile nel suo paese centro-africano, mi racconta di aver cominciato così: «Quando avete bussato alla mia porta ebbi la sensazione che Dio avesse risposto alla mia preghiera e capii che non sarei stata più sola». Una parola detta al momento giusto, un piccolo gesto possono riuscire a cambiare la vita di una persona, e questo sprona chi si dedica al servizio.
L’opera di predicazione si svolge sempre in tarda mattinata, mai di sera e cercando di evitare i momenti di particolare impegno per le persone. «Sono le 11:30, non staranno mica dormendo?», mi dice Martina aggiustandosi la gonna nera sotto le ginocchia. Alle porte successive però non risponde nessuno. «Forse ci hanno sentito entrare», le dico alzando le spalle. Mentre scendiamo le scale, si ferma un signore sulla sessantina. «C’avete qualcosa da leggere?», dice in maniera cordiale. Tiro fuori dalla borsa l’ultima rivista: A un passo da un mondo migliore. «Grazie signorina, sti giornalini mi fanno compagnia». Martina prova a dire qualcosa, ma il condomino è già andato via. In effetti, non è facile avviare le conversazioni. «Non si può sempre insistere – mi ricordò una volta Marta –, la gente è infelice ma pur sempre impegnata».
Dopo una giornata passata in servizio i piedi non te li sentì più. Ad agosto il caldo ti prosciuga, in inverno il freddo ti pietrifica. «E pensa che tutto questo lo si fa gratis – disse una volta ridendo Davide, un fratello trentenne che lavora in ospedale, a un signore fermato per la strada –. E non ce lo siamo nemmeno inventati noi – continuò aggiustandosi la cravatta –, è una cosa che parte da lontano, anche prima dei citofoni e dei campanelli, è un messaggio unico: abbiamo capito che per vivere meglio e per avere un futuro c’è bisogno del nostro Dio e l’amore che abbiamo per gli altri ci spinge ad agire. Io sono felice, lei non vuole esserlo?». Il signore lo guardò sbigottito, sputò a terra in malo modo e rispose: «Per me state for’ ca capa». (sirya micera – laboratorio di narrazione)