Il 27 agosto 2017 un incendio, probabilmente doloso, ha distrutto decine di baracche, automobili e camper, bruciato terreni e cumuli di rifiuti, nel campo rom di Scampia a via Cupa Perillo. Dopo quell’incendio, sessanta rom sono stati alloggiati dal Comune di Napoli nell’auditorium di Scampia; gli altri sono stati fatti tornare al campo, nonostante le condizioni ambientali fossero ancora più insalubri rispetto a quelle precedenti all’incendio. Per oltre sei mesi i rom sono rimasti accampati nel teatro, in un contesto assolutamente inadatto all’uso abitativo (un unico bagno, acqua a intermittenza, nessun riscaldamento).
In quei sei mesi le promesse dell’amministrazione comunale – dalla sistemazione temporanea nella caserma Boscariello alla bonifica definitiva e riprogettazione del campo – si sono rivelate poco più che chiacchiere da bar. Ad aprile, una discussa delibera riconosceva ai rom che avevano “vissuto” nell’auditorium una modesta somma in cambio dello sgombero immediato della struttura, palesando tutta l’incapacità, e la mancanza di volontà, da parte di de Magistris e la sua giunta, di immaginare un futuro diverso per i rom napoletani, rispetto ai campi spontanei, ai villaggi-ghetto, alle baracche.
Riproponiamo a seguire alcuni dei pezzi pubblicati nel corso dell’ultimo anno sul nostro sito.
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De Magistris si sbarazza dei rom di Scampia con un’elemosina. Fino al prossimo sgombero
Come nel Rashomon di Kurosawa, circolano almeno quattro versioni di quanto accaduto mercoledì 17 aprile nell’auditorium di Scampia, comprese quelle degli opinionisti dell’ultima ora che si sono scatenati sui social.
La versione del Comune di Napoli
La versione delle istituzioni, affidata a Roberta Gaeta, l’assessora al welfare del comune di Napoli, è questa: le famiglie rom, quarantotto persone, compreso un neonato – che vivono dal 27 agosto in auditorium a causa di un incendio doloso al campo di Cupa Perillo, che ha distrutto le baracche dove abitavano e tutto quello che possedevano –, in seguito a delibera comunale del 28 dicembre in cui vengono stanziati cinquemila euro a famiglia, una tantum, con cui cercarsi una sistemazione autonoma, devono lasciare l’auditorium e non avere più nulla a pretendere dal Comune in caso di ulteriore emergenza abitativa. L’accettazione del sussidio è avvenuta attraverso la compilazione di un’istanza di ammissione. Potevano presentare istanza di ammissione solo coloro che risultavano in possesso di alcuni requisiti (permesso di soggiorno, carta d’identità, codice fiscale, tessera sanitaria) e che si impegnavano a “garantire l’iscrizione e la frequenza scolastica dei bambini e definire un percorso di accesso ai servizi per l’inclusione attiva”. Il contributo è arrivato, dopo circa quattro mesi di iter burocratico, e le famiglie, come da accordi, devono lasciare lo spazio che li ha accolti per otto mesi. La versione è arricchita da particolari che descrivono l’assessorato e le sue appendici – gli uomini e le donne dell’Ufficio rom e patti di cittadinanza – impegnati in un costante lavoro di accompagnamento delle famiglie in questione. Si sottolinea la volontà pedagogica dell’intervento che vuole favorire l’autonomia delle persone e sottrarle all’assistenzialismo.
Per le quattro famiglie che non avevano i requisiti per il contributo, la proposta è stata il trasferimento presso il centro comunale Grazia Deledda a Soccavo, gestito da un ente della Protezione civile che si barcamena tra una emergenza e l’altra. Nel centro sono presenti famiglie di rom rumeni da oltre quindici anni. L’alternativa: arrangiarsi come meglio ritengono, in ogni caso senza il contributo economico e senza altro supporto istituzionale. Insomma, fare come hanno sempre fatto. Anche in questo caso si è precisato che le famiglie sono state seguite passo dopo passo per ottenere la regolarizzazione necessaria. L’instancabile lavoro di funzionari e assistenti sociali non ha però sortito effetto, la regolarizzazione non è avvenuta e i percorsi avviati non sono stati ritenuti sufficienti per meritarsi il contributo. Le famiglie hanno rifiutato la Deledda, scegliendo di andare per la propria strada. Ciascuno è responsabile delle proprie azioni, il Comune non è più responsabile di questi nuclei familiari. Ma dove vanno le famiglie? A questa domanda nessuno può rispondere con certezza, se non i diretti interessati.
La non-scelta dei rom: lasciare il quartiere
Secondo un’altra versione, però, nei mesi di attesa dalla compilazione dell’istanza all’erogazione del contributo, nessuno ha visto i funzionari comunali se non per consegnare e poi ricevere l’istanza compilata, infine nei giorni della liberazione dell’auditorium; nessuno li ha visti affiancare le famiglie nel difficile iter di individuazione di una casa da affittare, nessuno si è accertato che i nuclei più fragili fossero indirizzati verso situazioni non ricattatorie, nessuno ha accompagnato il processo accertandosi che l’erogazione del contributo, seppur minimo, fosse finalizzato alla riuscita dei cosiddetti “percorsi di inclusione attiva” delle famiglie scampate all’incendio.
I rom hanno capito subito che questa ricerca la dovevano fare da soli, e ancora più velocemente hanno capito che affittare una casa (dignitosa e con parametri abitativi uguali a quelli di qualunque altro cittadino) nel quartiere dove risiedono da trent’anni, con un contributo di questa entità è praticamente impossibile. Forse questo lo ha capito anche l’amministrazione che ha preferito non fare brutte figure e non rischiare ricerche fallimentari.
La ricerca si è estesa ai comuni della provincia, e qualche famiglia ha iniziato a lasciare Scampia. Lasciare Scampia significa lasciare la scuola, che tutti i bambini in età dell’obbligo hanno continuato a frequentare anche nei mesi di permanenza nell’auditorium, per di più interrompendola a metà anno; lasciare i progetti educativi e le attività pomeridiane che a Scampia proliferano, e vanno dalla musica allo sport passando per il teatro; lasciare le attività lavorative, seppur precarie, fragili, incerte; lasciare la rete di sostegno che si è creata negli ultimi venti anni; lasciare gli amici, gli affetti, i ricordi, che anche per i rom, grandi e piccoli, contano e fanno parte del patrimonio di vita. (continua a leggere...)
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