Sul muro che delimita il civico numero 58 di via Diomede Carafa c’è una grossa scritta in bianco: Magico Mondo Usato. Subito all’interno del parco, sulla sinistra, un cancello, e poi qualche scalino che guida nel deposito che Carlo ha allestito come mercato dell’usato. In effetti, nei tre enormi locali, qualcosa di magico c’è, se non altro per la varietà di quello che Carlo vende. Dietro la sua scrivania rimane a guardare discretamente, fino al momento in cui il cliente, se non ha trovato ciò che cerca, gli si avvicina: «Carlo ce l’hai…?». Mobili, poltrone, divani, biciclette, tavoli, giocattoli, impianti stereo; poi vinili, specchi, frigoriferi, ventilatori, vestiti, scarpe, televisori, soprammobili di ogni sorta e dimensione, intere cucine, stufe, macchine da scrivere, reti per i letti e materassi. A quella domanda, è difficile che Carlo risponda di no, al massimo chiede all’interlocutore qualche giorno di tempo: «Ho qualcosa per le mani la settimana prossima». Per il prezzo, problemi non ce ne sono. Un accordo si trova sempre.
«È un’attività che ho iniziato da qualche anno. Il mio lavoro è nel campo elettrico, ho un’impresa ancora in essere, con cui faccio certificazioni. Questa cosa è nata quasi per scherzo, anche se poi è diventata una vera attività. Prima di venire qua stavo in un altro locale, sulla stessa via, dove tenevo l’ufficio per le mie cose, ma era uno spazio semivuoto. Un giorno venne un signore e disse che stava liberando, teneva dieci banchetti di un call center e chiese se ce li volevamo prendere. Io dissi di sì, perché lo spazio c’era, non sapevo che farmene. Il giorno dopo entra uno e mi chiede se glieli volevo vendere, e così è iniziato tutto… Bagnoli è un quartiere particolare, non ci passa la gente di altri posti, ci sono solo pensionati. Se ti metti fuori la Posta rimani impressionato. E quindi a comprare qui arriva chi ha veramente bisogno di risparmiare, più che l’appassionato, che non dico si arreda casa, ma quasi… A volte mi affeziono alle cose che vendo, soprattutto le cose musicali. I dischi, i giradischi, le radio, mi piace tenermeli un po’ prima di darli. Io sono un ex dj e tutte queste cose mi ricordano un po’ la mia infanzia, la mia adolescenza. Ho cominciato a suonare che tenevo tredici anni…
«Io sono nato a Bagnoli nel 1960, nella parte alta, dove sta il municipio. È inutile dirlo: era un quartiere segnato dall’Italsider. Nel bene e nel male il cantiere è lo stemma nostro. Però non era male viverci. Mi ricordo i giri all’Edenlandia, oppure al Cinodromo, che all’epoca funzionava, lo Zoo pure, c’erano un sacco di cose. Oggi questa zona poteva essere rinomata, quarant’anni fa c’era tutto, e c’era pure una costa che oggi è anche libera dalla fabbrica. Quand’ero piccolo andavamo al Lido del Pino, quello che oggi si chiama La Veronica, facevamo dei tuffi da quel palazzetto a castello che sta là vicino… Poi c’era il Lido Fortuna, che ora hanno riaperto, oppure giù al depuratore, dove la gente si andava a fare le sanguisughe, oppure giù ai pontili, dove ci stava la colata di acqua calda naturale… Noi abbiamo una costa meravigliosa, e all’epoca non ci pensavamo tanto a queste cose del mare tossico, il problema nostro era la catrame sotto ai piedi, che quando andavamo a casa dovevamo toglierci questa roba da dosso. Poi arrivava il buio e il ricordo vero della fabbrica è la fiammata che usciva dal silos la notte, dal nostro balcone ti sembrava di starci dentro, c’era quest’alone rosso che era uno spettacolo incredibile, sembrava un’eruzione.
«Un po’ più grandi cominciarono a uscire i vespini cinquanta, e i più spavaldi si misero a truccare i motori, facevano le gare. Chiaramente ‘o vespino lo teneva solo chi aveva la possibilità, gli altri guardavano; io per esempio non lo tenevo, mio padre faceva l’operaio all’Italsider, non è che navigassimo nell’oro. Però eravamo pure cinque figli, e mio padre non ci ha fatto mai mancare nulla. Mio padre, apro e chiudo parentesi, è uno di quei pochi che è morto di fabbrica e non gli è stato riconosciuto un euro, lui che è stato trent’anni vicino all’altoforno…
«In quel periodo cominciammo a organizzare le prime discoteche negli scantinati. Facevamo suonare qualche gruppetto di ragazzi dal vivo, avevamo entusiasmo e ascoltavamo di tutto: i Beatles, gli Alunni del sole, i gruppi rock, Rolling Stones, Deep Purple… E poi i Pooh, non ti dico, quelle canzoni che erano pure un po’ smielate, però sono state le canzoni dei nostri innamoramenti… Il primo locale lo aprirono due miei amici. Io avrò avuto tredici anni, per una prima fase diciamo che ero la loro mascotte. E appresso a loro imparavo tutti i segreti, a muovermi tra cento vinili a sera, a mettere la cinquanta lire sulla puntina per non far saltare i dischi. Poi ti dovevi ricordare a memoria le battute, per entrare senza creare quegli sbalzi, insomma per fare il dj dovevi essere veramente bravo. Mo’ ti prepari il programma e hai fatto, questi suonano addirittura col computer!
«Il Triangolo stava a via Ilioneo. Lo chiamammo così in onore di Renato Zero, che all’epoca era il simbolo della trasgressione. Ci sono molti ragazzi che si sono conosciuti lì, abbiamo fatto fare l’amore a parecchia gente del quartiere… ma non solo eh, venivano anche da fuori. Bagnoli era un quartiere diverso da ora, c’era una bella vita giovanile. Una cosa che si faceva la sera, e radunava un sacco di gente, erano le gare dietro al Sandomingo, coi P4, i P3 della Ducati, quei centocinquanta metri con la paura di essere beccati dalla polizia… Poi con i più grandi si andavano a fare le corse nella grotta a Fuorigrotta, con le Cinquecento, le Seicento, le Abarth, ‘ste macchine tutte carenate, era uno spettacolo. E una volta usciti dalla grotta tutti quanti a scappare, perché si trovava sempre la polizia che aspettava là fuori…
«Come dj cominciavo a essere un po’ conosciuto, e decidemmo di fare una radio, che chiamammo Radio Ilva 21. Andavamo forte, avevamo un sacco di idee, ci appoggiavamo su un piccolo ripetitore. Era la classica radio di quartiere, però seguitissima. A una certa ora telefonavano gli operai che avevano finito il turno e prima di coricarsi si sentivano la radio. Avevamo montato tutto nella stanzetta della sorella di un amico, l’avevamo riempita che scoppiava, non c’entravano nemmeno due persone assieme, piena di dischi, mangianastri, piatti… Poi cominciarono a chiedere i permessi, ci volevano soldi, non siamo durati molto. Le radio libere sono state una grande esperienza. Si facevano le dediche, si conoscevano persone. Noi eravamo veramente scatenati… Charlie Crazy, Patrick Chic, ci inventavamo ‘sti nomi ed eravamo riconosciuti nel quartiere come quelli della radio, anzi stavamo pure pieni di ragazze…
«Il locale l’abbiamo chiuso nel 1980, dopo sette anni, per colpa del terremoto. Ci fu un danno alla struttura e non ce la sentivamo di andare avanti. Quella sera stavo miscelando dei dischi, a un certo punto vidi la sfera, la palla luminosa a specchio che invece di girare andava sopra e sotto. Poi con le cuffie nelle orecchie non mi rendevo conto, vedevo tutti che scappavano e rimasi solo con questi due-tre amici fino a che non ci vennero a dire: “Scusate ma voi non scappate? Ci sta il terremoto”. Uscimmo che era tutto buio, credo fossero le otto, perché all’epoca i locali non è che aprivano all’una di notte come ora. Si apriva alle cinque, alle sei cominciava a venire gente e si andava avanti fino alle nove, le dieci proprio quando si faceva tardi. A parte i grandi locali, gli altri erano così. Comunque uscii fuori e vidi questa scena da cinema: tutto il quartiere con le mappatelle, tutte queste famiglie che scappavano verso la Nato, e allora ci andai pure io, e acchiappai la mia ragazza che era andata lì con la famiglia. Quando dico la Nato parlo del piazzale ovviamente, se aspettavi che gli americani ti aprivano la Nato a te, aej…
«E così la notte del terremoto finì Il Triangolo. La chiusura del locale fu un colpo, perché con la musica si guadagnava benino. Nel frattempo comunque mi ero diplomato perito elettrotecnico all’Augusto Righi. In quel periodo un po’ si lavorava, e mi sono messo dietro a uno del quartiere, un masto, con cui facevamo soprattutto i negozi. Io lo facevo con passione, non guardavo mai l’orario di lavoro e divenni in poco tempo il beniamino di questo masto… Dopo un poco sono stato assunto in una ditta, alla quale però, dopo una decina d’anni, è cominciato a mancare il lavoro, e così ho deciso di aprirmene una io. Ho lavorato bene per qualche anno, poi di nuovo punto e daccapo, erano gli anni in cui il lavoro cominciava a diminuire pure in fabbrica… Lì non ci ho mai pensato di andare. Forse perché sono sempre stato uno spirito libero, mi è sempre piaciuto fare le cose a modo mio. E il cantiere ovviamente era l’opposto di tutto questo. Ho conosciuto persone, a cominciare da mio padre, che stavano vicino alle macchine dieci ore al giorno, senza potersi muovere… Mio padre della fabbrica aveva il mito, l’Italsider era più che lavorare in banca per la sua generazione. All’epoca quando il genitore usciva dalla fabbrica entrava il figlio, e non si ha idea quante storie nelle case del quartiere, con questi figli che rispondevano ai padri: “No, ma quando mai! Io in fabbrica non ci voglio andare!”, però spesso finivano per andarci, perché comunque il bisogno c’era.
«Mio padre era un tecnico del reparto “qualità acciaio”, diceva che l’acciaio più bello del mondo si faceva a Bagnoli. Lavorava con le provette, andava a fare i prelievi, raccontava orgoglioso che il suo laminato nemmeno i tedeschi ce l’avevano. Poi vatti a spiegare perché una fabbrica così all’avanguardia è stata chiusa come se fosse una cosa che non serviva a niente. Alla fine è andata come è andata, mio padre è morto a sessantasette anni, da due anni stava in pensione, dopo che era stato pure operato. E quando morì questi dissero che era stato un tumore da fumo! Uno che è stato quarant’anni in fabbrica… Ha buttato il sangue in un’azienda in cui credeva, e non gli è stata riconosciuta manco una lira di risarcimento, nemmeno un riconoscimento di quello che ha fatto per l’azienda, ogni santo giorno per tutti quegli anni. Come è stata trattata la memoria di mio padre mi ha insegnato che spesso la brava gente è presa per fessa, mentre i figli di puttana e chi alza la voce viene ascoltato. Quello che si diceva in giro, già anni prima che scoppiasse il casino, è che bisognava intervenire in tempo, ma poi non è stato fatto nulla. Lavorare sui sistemi di sicurezza, sui controlli, se fosse stato fatto forse ora staremmo scrivendo un’altra storia. Eppure, nel bene e nel male, quella era la nostra azienda. Era di tutti noi, era il nostro marchio». (riccardo rosa)