to possibile grazie al culto del santo, ma anche grazie alla nostra bravura, se permettete!
Nell’ultima guerra è stato particolarmente avventuroso. Si decise di trasferire i gioielli in un luogo sicuro, e fu scelto malauguratamente Cassino. Nell’abbazia benedettina, dove c’era un commando tedesco che sorvegliava le opere d’arte, furono mandate le casse contenenti i pezzi più preziosi. A differenza degli americani, che non hanno mai rispettato niente – bombardavano, scassavano, rubavano – i tedeschi almeno erano estimatori, anche se di questi tempi è impopolare da dire. Un ufficiale tedesco, nel momento in cui si capì che gli Alleati avevano in mente di distruggere il monastero, prese sia l’abate che il tesoro e li portò in salvo in Vaticano. Finita la guerra ci fu un momento di confusione, per la paura che il tesoro potesse restare definitivamente nelle grotte vaticane. Il cardinale Ascalesi allora cominciò a raccogliere le forze per riportare il tesoro a Napoli: indisse un grande processione, fece cerimonie, appelli, e chiese all’esercito americano una scorta, ma gli americani risposero che avevano cose più serie da fare. Si rivolse quindi all’esercito francese, di stanza a piazza dei Martiri, ma pure quelli gli dissero che non era cosa. Non si sapeva più come fare, finchè non comparve un signore, un certo Navarra, detto “il re di Poggioreale” – praticamente il capo della malavita dell’epoca –, il quale disse: “Non vi preoccupate, ci penso io. Avvertite il Vaticano che arrivo, e vi riporto i gioielli a Napoli con i miei uomini”. Ci fu un po’ di indecisione, qualche perplessità, alla fine il cardinale dette il suo benestare, e Navarra partì. Naturalmente telefonarono da Roma non appena lo videro arrivare: “Qua ci stanno dei brutti ceffi tutti armati che vogliono prelevare i gioielli, glieli dobbiamo consegnare?”.
L’unico intoppo fu nel ritorno, perché questo Navarra era a capo della malavita di Napoli, ma non di tutta la Campania; e quelli che oggi si chiamano “casalesi”, a quei tempi chiamati “mazzoni”, avevano tramato di sottrarre il tesoro durante il traghettamento del Volturno, dove non c’era più il ponte. Di questo però Navarra, che sapeva il fatto suo, fu avvertito, e così fece un giro incredibile, passando addirittura da Roccaraso per evitare gli agguati, riuscendo alla fine a riportare i gioielli in città. Ci hanno fatto pure un film, si chiama Il re di Poggioreale.
L’impegno nella Deputazione è una delle tante tradizioni della mia famiglia. Una famiglia controversa: un papa della Controriforma, il terribile Paolo IV; cardinali, condottieri come Oliviero Carafa, proprietario del palazzo che oggi è il Quirinale; nobildonne, come la bellissima Donn’Anna Carafa, che ammalatasi di vaiolo si fece costruire un palazzo sul mare a Posillipo, a quei tempi periferia, e non si mostrò più in pubblico se non velata. O rivoluzionari come Ettore Carafa, uno degli artefici della rivoluzione napoletana del 1799, che oggi si direbbe uno piuttosto di sinistra… Povero Ettore Carafa,fu uno dei pochi a pagare, insieme agli altri nobili giustiziati dopo la rivoluzione: Carafa, Serra, Sanfelice. Decapitati, ma non con la ghigliottina, ritenuto strumento rivoluzionario. Di questi, Carafa era l’unico che aveva fatto la scuola militare, e difatti fece conquiste nella sua terra, ad Andria, che riuscì a togliere ai Borbone.
Il padre di Ettore era primo gentiluomo di corte, e la madre dama di palazzo. Questo rivoluzionario in famiglia creò un certo scompiglio, si cercò anche di chiedere la grazia a un certo punto, ma la regina di Napoli era pur sempre la sorella di Maria Antonietta di Francia, alla quale i rivoluzionari avevano tagliato la testa per poi buttarla in mezzo alla piazza. Sapete che Ettore Carafa chiese di essere giustiziato guardando il boia? Gli disse: “Racconta al tuo re come sa morire un Carafa”. E il re, quando glielo riferirono, commentò: “Ilduchino ha voluto fa’ ’o guappo fino all’ultimo!”.
Di Ettore ce n’è stato solo uno dopo il rivoluzionario: mio zio, che dopo la guerra era presidente dell’Agip. Mio nonno scrisse un saggio su Ettore Carafa, ma rimane una figura poco ricordata nella storia della rivoluzione. Meriterebbe di più anche solo per com’è finito, perché si arrese alle truppe borboniche a Pescara solo quando ebbe la parola, poi non mantenuta, che i suoi uomini sarebbero stati lasciati liberi. Eppure, non c’è una targa, non c’è una strada, solo via Conte di Ruvo, che non si capisce neanche che è lui, perchè il titolo di duca d’Andria forse non gli fu mai attribuito, dato che si trovava già in carcere quando morì suo padre, e bisognava che il re desse il suo benestare per il passaggio del titolo.
Come entra tutto questo nella mia vita quotidiana?Mah, sarebbe come chiedere: “Come ci si sente ad avere i capelli castani?”. Quando uno da bambino sente parlare di queste cose poi le trova normali. A volte il mio nome mi ha anche danneggiato. Nel lavoro ho incontrato persone che godevano nel mettermi sotto, chi pensava: “Questo chissà chi si crede di essere”. Non è stato facile, anche perché mi è stato inculcato di mantenere una certa moralità, il fatto che certe cose non si possono fare. C’è questo freno della dignità. Non è il nome, è un certo rispetto per chi ti ha preceduto. Perché quando muori trovi gli antenati lassù che ti dicono: “Che hai fatto?”. Così cerchi di fare in modo di presentarti bene, di poter dire: “Non ho aggiunto, ma non ho neanche tolto”.
Per molti anni ho lavorato all’Alitalia, prima negli uffici in città, poi, per uno di questi problemi di antipatia, fui trasferito in aeroporto. Per fortuna ho sempre trovato dei colleghi simpatici, grandi mangiate insieme e cameratismo, anche perché spesso avevamo dei turni spaventosi, per esempio dalle due di notte alla mattina presto. Con questo tipo di lavoro non puoi avere altri amici, magari ti invitano a cena e tu devi dire: “Vengo da te, però alle dieci vado via”. Perciò alla fine ci si unisce tra quelli che fanno lo stesso lavoro. Anche questa è una vita sui generis, ecco.
In ogni modo non ho mai fatto molta vita mondana, non sono socio di circoli o altro. Naturalmente gli altri nobili napoletani li conosco tutti, ogni tanto è doveroso farsi vedere a qualche ricevimento per mantenere i rapporti, ma mi divertono di più altre cose. Per esempio, sono un membro dell’accademia della cucina, ci riuniamo per scoprire posti dove fanno preparazioni particolari; e poi debbo confessare un altro vizio: ancora oggi, nonostante l’età, faccio qualche gara automobilistica. Da ragazzo ho raggiunto un buon livello nelle gare su strada in salita; prima si faceva la targa Vesuvio, la Sorrento-Sant’Agata. Ora in zona non si corre più, ma al Nord Italia si continua. Ho un’Alfa Romeo preparata. Così, ogni tanto…
Noi della Deputazione siamo visti come vecchi bacucchi legati a tradizioni e valori non più attuali, che vivono in un mondo tutto loro. Ma prima di tutto siamo dei custodi di beni culturali da usare in maniera moderna. È inutile fare anacronismi. I neoborbonici? So’ simpatici, ma che vuol dire “sono borbonico”, è come dire “sono napoleonico”, “tu sei per Pompeo e io per Cesare”. Sono cose fuori dal tempo. Io lo conosco Carlo di Borbone, viene sempre al miracolo di San Gennaro, è nu bravu guaglione, ma che vogliamo fare, lo vogliamo fare re di Napoli? Certo, la Deputazione è un lascito di altri tempi, ma tutte le istituzioni lo sono in qualche misura. E, soprattutto, è un’organizzazione che ha dimostrato di essere valida, perché i gioielli stanno ancora là, nonostante la soprintendenza, il comune, il cardinale… Ogni cardinale nuovo che viene a Napoli, per esempio, non ci può pensare che il sangue di San Gennaro lo teniamo noi, e fa cose di pazzi, telefona a Roma per fare sciogliere la Deputazione; perché se, per assurdo, quel giorno decidessimo di non fare uscire il sangue, il cardinale non potrebbe farci niente. Vuoi fare il miracolo di San Gennaro? Fattello tu, io il sangue non lo caccio! Da parte nostra cerchiamo di difenderci dal cardinale dicendo al sindaco: “Vedi che quello ti vuole fregare il posto, vuole mettere un monsignore al posto tuo!”. E tutto si ripete a ogni cardinale che viene, a maggior ragione se il sindaco è di sinistra. Ma se veramente mi metto a tuzzo col sindaco, col cardinale o col prefetto, che faccio, la guerra contro gli Stati Uniti? Bisogna mantenere un equilibrio. Forse nel Cinquecento e nel Seicento le famiglie della Deputazione avevano un certo potere, oggi ci farebbero una risata in faccia. (viola sarnelli)