Una quindicina d’anni fa, al festival della rivista Abitare a Perugia, ascoltai, insieme ad alcuni compagni della redazione di Monitor, qualche brano della presentazione del libro di Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa. Lagioia non aveva quarant’anni e si arruffianò la platea prendendo per il culo i giovani sottoproletari del centro storico di Bari, il cui tratto peculiare, secondo lo scrittore, era quello di indossare, quasi fosse una divisa, un capo di abbigliamento effettivamente cult dagli anni Ottanta in poi: la tuta acetata. Non ricordo se qualcuno di noi indossasse una tuta in quella circostanza, ma dopo qualche minuto di quelle storie imbarazzanti ci alzammo dalla prima fila e lasciammo la sala. La sera, quando rientravamo in albergo, dovevamo aggirare il portiere perché dormivamo in quattro in una doppia.
Nei giorni successivi alla Pasquetta, è diventato virale il video di tre ragazze napoletane a cui è stato vietato l’ingresso a un party in spiaggia sul litorale domizio, il giorno del Lunedì dell’angelo, a causa dei vestiti che indossavano, delle tute a fantasia leopardata. “Non possiamo entrare – hanno denunciato su Tik Tok – perché abbiamo questa tuta. In questo lido si può entrare nude, ma con questa no!”. Il video è stato rilanciato con toni indignati dal consigliere regionale Pasquale Di Fenza (Azione), che con un lungo post ha commentato il “vergognoso” episodio e chiamato in causa la libertà d’espressione, le discriminazioni e la “polizia morale”.
Il vestito che indossavano le ragazze è un’interessante fusione tra la cosiddetta jumpsuit e una più tradizionale tuta acetata, con una eccentricità cromatica che rimanda alle origini del capo e del vocabolo, attribuibile, secondo molti, all’artista futurista francese Thayat.
Tra il giugno e il luglio del 1920 le colonne del quotidiano La Nazione ospitano il lancio della Tuta, indumento ideato da Ernesto Michahelles, in arte Thayaht, poliedrico e cosmopolita artista con base a Firenze, che in quella invenzione riesce perfettamente a cogliere e a tradurre il portato storico e i mutamenti estetici del suo tempo. “Un giorno passando in via Orsanmichele, vidi in una vetrina tessuti di cotone e di canapa a colori vivaci e a poco prezzo. Presi alcuni campioni e mi misi al lavoro”. Così Thayaht ricorda la scintilla prima dell’idea, corroborata dalle conoscenze acquisite nei mesi di collaborazione a fianco della stilista francese Madelaine Vionnet, nota per i tagli “in sbieco”, per la quale disegna abiti, decorazioni d’interni, gioielli, ex libris. (fonte: uffizi.it)
Stoffe lucide e colori sgargianti sono stati, a partire dalla fine degli anni Settanta, un elemento caratteristico delle tute delle squadre di calcio, indossate con orgoglio non solo dai supporter locali, ma diventate col tempo simbolo per tanti giovani di una street-culture ostentata in opposizione alle forme (non solo d’abbigliamento) borghesi. Si potrebbe indugiare a lungo sul tema, ma vale la pena ricordare solo alcuni capi diventati delle icone: la Sergio Tacchini di Notorious B.I.G., per esempio, o la Umbro di Maradona che, già da ex calciatore del Napoli, si allenò nella Pampa per preparare il mondiale Usa ’94 con una strepitosa tuta Voiello. Emarginati di lusso, sponsor perfetti.
‘O rione è ‘nu teatro
e l’atture so’ animale ‘mpazzute
cu ‘e tute ‘e l’Umbro ‘ncuollo.
E fare luong’, ‘e circhie d’oro appise ‘e recchie
me perdevo dinto ‘e cerchiune argiento d’e Serie 3.
Crisciuto addo’ ‘a galera è n’obbiettivo
e gli obiettori so’ ‘cchiù pochi d’e pentite,
‘e vergogne d’e partite.
L’Iraq, Città Mercato, fernesce l’Apartheid, ma ‘cca…
Mary è pe’ sempe ‘na puttana.
(co’sang, 80-90)
Dall’underground all’hip-hop e la trap, passando per l’Atlas verde di Bob Marley e l’hooly-casual da stadio (più per le felpe che per i pantaloni) il passo verso la degenerazione dell’immaginario è breve.
Tengo una bella mazzetta, nella mia tuta di felpa una panetta […]
Dentro la tuta di felpa, i fra’ mettono la Beretta […]
Tutte ‘ste milf vanno in tilt, si scengo c’a tuta, mica c’o kilt.
(guè ft. nto, tuta di felpa)
Comodità o pose da tipo da strada? Ostentarla in certe circostanze mostra noncuranza alle regole della forma e ai canoni sociali. O esattamente il contrario?
Cinque cellulari nella tuta gold
baby non richiamerò.
(mahmood, tuta gold)
Dietro la rappresentazione ci deve essere un po’ di contenuto, e per esempio, per il detenuto, la tuta è in cella più importante che in strada.
Trasimm’ int’a galera
cu ‘a tuta d’a Legea
d’a Zeus o d’a Givova
scarpe slacciate ‘o per’.
Forse sbagliammo i modi
ma nun sbagliammo moda,
trasimm’ int’a galera
cu ‘a tuta d’a Legea.
(speranza, givova)
Campionato di Serie A 1998-99. Venezia-Bari è sull’uno a uno. La gara è praticamente finita. Punizione senza pretese di Volpi, dalla nebbia sbuca un giovane brasiliano che di testa insacca il gol che farà vincere i lagunari. Il numero 29 del Venezia esulta, bacia la maglia, ma i suoi compagni sembrano meno entusiasti. A fine gara, i giocatori del Bari spintonano quelli del Venezia, che incassano e non replicano. Nel tunnel verso gli spogliatoi, il calciatore brasiliano viene avvicinato da un avversario, De Rosa, che gli dà un buffetto e gli fa ironicamente i complimenti alzando il pollice; arriva un altro del Bari, Spinesi, si sente una voce gridare: “Spaccagli i denti a quella testa di cazzo”. Il centravanti del Venezia dichiarerà stupito a fine gara: “I miei compagni mi hanno detto che non avrei dovuto segnare, la partita doveva finire uno a uno” (salvo poi ritrattare nel corso del processo sportivo). A fine stagione il calciatore fu rimandato in Brasile, dove segnò più di centocinquanta gol, vinse tre campionati e poi si fece arrestare perché non pagava gli alimenti alla moglie. Di Moacir Bastos, tuttavia, non si sa molto oggi, ma probabilmente tutti continuano a chiamarlo con il soprannome con cui divenne famoso nel mondo del calcio. (riccardo rosa)