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napoli
21 Luglio 2012

Natale Galletta, il geometra neomelò

Monitor
(disegno di chiara tirro)

In pochi sanno che l’esatto appellativo della cosiddetta Madonna del Carmine è Beata vergine Maria del monte Carmelo. Il suo nome deriva dall’apparizione ricevuta negli anni Cinquanta del 1200 dal futuro san Simone Stock, priore generale dell’ordine carmelitano. Ancora meno sono quelli a conoscenza del fatto che non è l’ordine ad aver preso il nome dalla vergine, ma esattamente il contrario: i carmelitani, infatti, si erano insediati sul monte Carmelo, in Palestina, già a metà dell’undicesimo secolo, anche se solo dopo la terza crociata alcuni pellegrini ed ex combattenti si stabilirono presso la “fonte di Elia”. Lì iniziarono a condurre una vita eremitica seguendo la lezione del nobile francese Bartolomeo Avogadro, più conosciuto come Bertoldo di Calabria, o semplicemente come san Bertoldo. La vergine, invece, riceve il suo nome dal luogo dell’apparizione.

Molto sentito è a Napoli il culto della Madonna del Carmine, anch’esso, a sua volta, collegabile a un evento miracoloso: nell’ottobre del 1439, infatti, nel corso dell’assedio da parte di re Alfonso di Aragona alla città, il convento del Carmine fu colpito da una cannonata. Quando i fedeli vi si recarono, però, trovarono il crocifisso ligneo del 1300 venerato all’interno della struttura assolutamente intatto, anzi, si accorsero che questi aveva cambiato posizione, assumendo un atteggiamento simile a un uomo sofferente, ma vivo. Qualcuno, sembrerebbe, che cerca di parare o evitare un colpo che gli sta per sopraggiungere.

La piazza del Carmine è una piazza molto popolare, all’interno del rione mercato. Se è vero che non tutti – a parte forse qualche anziano devoto – sono a conoscenza di queste “antiche gesta”, la maggior parte delle persone che la popolano quotidianamente conosce quelle di uno dei numeri uno della storia della musica neomelodica, il messinese Natale Galletta. È proprio a pochi passi dalla chiesa, su un palco montato “fronte-mare”, e sotto gli occhi protettivi di un quadro della Madonna attaccato alle attrezzature di metallo, che Galletta si è esibito mercoledì sera, riempiendo la piazza con un numero poco definibile di persone, probabilmente più vicino alle dieci che alle cinquemila.

Il concerto era legato a una iniziativa di beneficenza in favore dei terremotati emiliani, ed è andato avanti per più di due ore, preceduto da una breve sfilata offerta da uno degli sponsor. Le giovani ragazze (tutte tra i quindici e i diciotto) avevano l’aria di affrontare il palco per la prima volta, e di essere più o meno tutte della zona. «Mamma, vatti a sedere in seconda fila, vicino alla mamma di Silvana», urlava al telefono una in bikini rosa, per cercare di sovrastare il vociare di ospiti, giornalisti e fan che affollavano il backstage, per lo più alla ricerca di una foto con il protagonista della serata.

Enzo Polverino è il manager di Galletta, nonché lo storico autore di alcune tra le sue più note canzoni. Riesce con un’abile manovra a portarmi da lui nel piccolo gazebo all’interno del quale sono stati sistemati pasticcini e graffette, così da poter scambiare qualche parola in relativa pace. Natale, un omaccione alto più di un metro e ottanta, cordiale come un siciliano, ma con un accento meticcio, mi racconta di essere molto emozionato: «Era da  po’ di anni che mancavo qui a piazza Mercato, dove comunque non avevo mai cantato da solo. La cosa più bella è vedere un pubblico così diverso anagraficamente: sono venuti insieme mamme, papà, figli e fidanzati, e questo per uno della mia età è gratificante». Natale parla così, ma non è certo un brizzolato signore di mezza età: ha quarantacinque anni, è in gran forma, anche se è vero che in un mondo dove si comincia presto, se hai trent’anni di carriera alle spalle rischi di perdere per strada qualche generazione. Solo ai più forti capita di riuscire ad “acchiappare” tutti, e lui – che mi ha confessato di essere entusiasta della propria carriera, ma che allo stesso tempo, se dovesse immaginarsi altrove, gli sarebbe piaciuto fare il geometra, «quello per cui ho studiato» – non può non considerarsi tra questi.

A onor del vero, ben presto, durante il concerto, mi rendo conto che le sue parole sono più che azzeccate. La piazza è praticamente piena, e per la maggior parte delle canzoni al pubblico basta ascoltare le due note iniziali per lasciarsi andare e cantare a squarciagola. Certo, le ragazzine tengono più a canzoni come Ti do la mia parola, l’ultima grande hit (2010), il cui testo è in buona parte in italiano, ma questo non impedisce di vederle urlare, assieme alle loro mamme, davanti a pezzi più datati, come Quel vestito rosso, scritta per Galletta da Gigi D’Alessio nel 1992.

«Credo che chi canta la musica come la nostra lo sappia: è meglio essere il numero uno a Napoli che il numero cinquecento in Italia», mi aveva detto Natale pochi minuti prima di salire sul palco. Forse, considerando la sua carriera, la stima fatta sorridendo non è poi così sbagliata. Mentre la sua voce ancora potente – a  differenza purtroppo di tanti altri neomelodici “storici”, che iniziano a perdere qualche colpo – tira fuori i pezzi più acclamati (Mai mai mai, Scinne, Malatia, Bella e cattiva) conditi di tanto in tanto dall’ingresso sul palco del corpo di ballo, si moltiplicano le ragazzine che salgono sulle spalle dei propri fidanzati, e i bambini che provano a vedere qualcosa dalle fioriere ai piedi della chiesa. Così come si moltiplicano gli affari per i venditori praticamente di tutto: dalle fascette colorate con il nome del cantante, fino a bibite, panini, nocelle zuccherate, coppetielli di pesce fritto, trippa e pizze varie. Prezzi popolari e tutti contenti.

Alla fine del concerto, dopo due ore e passa di musica, la piazza si svuota lentamente. I primi vanno via a cavallo di motorini di qualsiasi cilindrata e dimensione. Poi le famiglie a piedi, che risalgono verso Forcella, il Rettifilo, i Quartieri spagnoli, Foria. E poi i ragazzi, che si allontanano cantando il successo che più gli resta nel cuore e nelle orecchie. Un’amica catapultata in piazza direttamente da Copenaghen, curiosa e divertita, mi chiede notizie del cantante, e di chi fosse il giovane che a un certo punto ha cantato una canzone con lui. Le spiego che si tratta di Giovanni, il figlio di Natale, e che come lui anche il padre del neomelodico messinese era un grande appassionato di musica partenopea: «È lui – mi aveva spiegato prima Galletta – che mi ha mischiato la grande passione per la musica napoletana. Cantava Merola, Sergio Bruni e Mario Abate, e così dopo aver cominciato in Sicilia, e aver cantato lì per più di quindici anni, sono arrivato anche in questa mia seconda patria».

Mentre da via Marina partono i fuochi di artificio ci allontaniamo dalla piazza, anche noi in motorino: per Natale è stato un trionfo, gli applausi e le voci della gente li avrà probabilmente nelle orecchie per un po’. Mi chiedo se nell’immaginario di un cantante affermato come lui, riempire una piazza come questa sia davvero un’emozione, o magari invece è solo il tassello di un puzzle composto da diecimila altre feste, locali all’aperto, parchi, matrimoni.

Ultimi della fiera, anche i venditori lasciano la strada, e provo, scrutandoli, a immaginare se anche per loro domani ci sarà un’altra festa, un altro evento, magari il concerto di Ligabue e Laura Pausini al Plebiscito. Osservo quello che abbiamo nominato Pablito, per la sua impressionante somiglianza con Picasso, che conta gli spiccioli, dopo aver canticchiato durante la serata qualche canzone, o imprecato con i compagni perché gli affari non andavano. «Te vuò fa’ sulo ‘e feste ‘e mille euro!», l’aveva rimproverato un altro, invitandolo a imparare ad accontentarsi. Probabilmente le sue tasche avranno gioito di più ieri sera, nella piazza più grande della città, tirata a lucido per il cantante emiliano, e riempita per il grande evento. Ma c’è da scommetterci, che tornando a casa, dopo aver sentito Certe notti e Bar Mario, lui si sarà “ripreso” canticchiando: «Bancomat ogni matina…». (riccardo rosa)

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