Le mobilitazioni contro la chiusura dell’Ospedale San Gennaro delle ultime settimane, che hanno portato all’occupazione della struttura, presentano elementi di novità nel panorama delle recenti lotte, sporadiche e frammentarie, in difesa della sanità pubblica.
L’Ospedale San Gennaro dei Poveri è una struttura importante per la sua ubicazione, nel cuore del rione Sanità, un’area popolare collegata al resto della città da un ascensore e da piccole strade che si arrampicano verso Materdei o arrivano, sul versante opposto, a piazza Cavour. È comprensibile, quindi, che l’idea di perdere l’ospedale “rionale” e affrontare eventuali urgenze sfidando la cronica assenza di strutture territoriali e la distanza con i principali ospedali della città produca mobilitazioni rabbiose. Negli ultimi anni l’ospedale ha fatto fronte alla domanda sanitaria in un contesto difficile, caratterizzato dalla carenza di fondi dell’era dell’austerity. Accanto a diverse unità operative di area medica e chirurgica erano presenti all’interno della struttura il Polo Onco-Ematologico, la Riabilitazione Cardiologica, l’Endocrinologia medica e chirurgica, il Centro Diabetologico e la Nutrizione Artificiale Domiciliare. Nel corso degli anni il San Gennaro ha subito una drastica riduzione dei posti letto, fino alla chiusura prevista dal decreto del commissario Polimeni, in cui si legge che “il San Gennaro, disattivato quale presidio ospedaliero, diviene una struttura a indirizzo territoriale riabilitativo”, con la confluenza delle specialità mediche e chirurgiche in esso ospitate verso il tanto atteso Ospedale del Mare.
È chiaro che in questa vicenda il grande assente è il piano alternativo per soddisfare la “domanda di salute” del territorio e questo rende indigesta una decisione che in un’ottica di riorganizzazione della spesa sanitaria appare invece condivisibile. Il rione Sanità si trova all’interno della III Municipalità, a poca distanza dalle principali strutture ospedaliere della città, con un’offerta differenziata ambulatoriale e chirurgica che potrebbe, in un sistema efficiente, soddisfare le esigenze della popolazione. La presenza di una struttura come il San Gennaro, con costi di gestione elevatissimi e reparti che svolgono attività che è possibile svolgere altrove, è francamente un eccesso in un’area metropolitana di questo tipo. Tutto ciò almeno in linea teorica, perché è noto che costituiscano un problema drammatico la presenza di liste d’attesa insostenibili presso gli altri ospedali e il sovraffollamento dei Pronto Soccorso nel resto della città, peraltro non facilmente raggiungibili per problemi di viabilità. È anche vero, però, che tenere aperto il San Gennaro così com’era non avrebbe risolto la situazione. La razionalizzazione dei posti letto ospedalieri, in ogni caso, non può essere effettuata lasciando in balia del destino chi abbia bisogno di assistenza, ma andrebbe integrata da un piano di riorganizzazione complessiva. Come è stato possibile osservare negli ultimi anni, infatti, il solo taglio di spesa produce una decadenza inesorabile del sistema sanitario.
Al di là delle differenti visioni, è allora la questione del deficit a essere l’argomento chiave del dibattito politico, che non può prescindere dall’enorme spreco di risorse compiuto fino a oggi e che ancora costituisce l’elemento centrale del disavanzo della sanità pubblica. Risorse mandate in fumo per l’assenza di una struttura organizzativa valida e per il legame, venefico e a doppio filo, tra sanità e politica, che ha prodotto negli anni enormi sprechi di denaro pubblico e occasioni di crescita, in ossequio a una gestione clientelare della sanità stessa, dentro cui il ruolo delle professioni ha finito per essere secondario a quello della classe politica.
Il debito governa la questione sanitaria e non vi sono, al momento, spiragli che lascino sperare in un prossimo mutamento dell’orizzonte politico, per cui è lecito aspettarsi un perdurare di questa situazione: da un lato i grandi gruppi privati che hanno puntato da tempo il gigantesco affare della sanità regionale e dall’altro i settori della società che intendono mantenere in questo paese una sanità che tuteli la salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. È in questo contesto che bisogna cominciare a ripensare la sanità “dal basso”, provando a trasformare la giusta rabbia dei cittadini in una proposta di temi che per troppo tempo sono stati lasciati agli alfieri del neoliberismo. Efficienza, efficacia, razionalizzazione delle risorse: sono concetti che andrebbero messi al servizio di un progetto di riorganizzazione che non equivalga a una dismissione. A tale scopo è necessario articolare una proposta politica che non contenga dei semplici NO ma formuli proposte nell’immediato, anche a costo di cedere qualcosa sul piano dell’idealità.
È in questo contesto di crisi, che dopo anni di dibattito e tentativi di far fronte a una situazione tragica, è nato il Piano di Rientro dal disavanzo della Regione Campania, siglato con un accordo del marzo 2007. Con una delibera del luglio 2009 la presidenza del consiglio dei ministri nominò commissario ad acta per l’attuazione del piano Antonio Bassolino, all’epoca governatore della Campania. Sarà la legge di stabilità 2015 ad affermare che il commissario della struttura preposta al rientro dal disavanzo non può essere lo stesso governatore della regione commissariata, cioè almeno formalmente il responsabile del deficit.
Il mandato commissariale prevedeva il riassetto della rete ospedaliera e territoriale, con adeguati interventi per la dismissione, riconversione, riorganizzazione dei presidi non in grado di assicurare adeguati profili di efficienza ed efficacia; inoltre; l’analisi del fabbisogno, la verifica dell’appropriatezza e la conseguente revoca degli accreditamenti di parte delle strutture private che erogano prestazioni per conto della Regione. Il Piano Ospedaliero, all’interno di questo processo, risulta vincolato a tale Piano di Rientro e a una serie di parametri.
Il riassetto della rete ospedaliera e territoriale è già contenuto nel decreto del settembre 2010 del commissario ad acta, che fissa nuovi criteri per il calcolo del fabbisogno di posti letto pubblici e privati per singola provincia. Un modello organizzativo che potrebbe essere una leva importante per risollevare le sorti della sanità campana, a patto di costruire una rete d’intervento territoriale imperniata sul servizio di emergenza del 118 e su una rete inter-ospedaliera integrata, come già accade in numerose realtà italiane. Tale organizzazione dovrebbe partire dal territorio articolandosi con la rete ospedaliera attraverso protocolli condivisi e la differenziazione dei servizi. Un sistema che funziona nelle regioni cui guardiamo spesso come a un modello, l’Emilia Romagna e la Toscana.
L’Operazione San Gennaro condotta di recente, invece, con la chiusura di uno storico ospedale punto di riferimento della cittadinanza, cui non ha fatto da contraltare l’apertura di una struttura di assistenza, è divenuta un disastro proprio perché è mancato quello che, a leggere documenti e normative degli ultimi vent’anni, è invece il tema centrale, quella integrazione tra ospedale e territorio senza la quale è oggettivamente difficile immaginare un’uscita da questa crisi.
Il decreto commissariale del 18 febbraio 2015, che definisce il nuovo modello per l’organizzazione delle cure primarie, fornisce alcune linee guida, tra le quali: “realizzare nel territorio la continuità dell’assistenza ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana”; “favorire il mantenimento della persona nel proprio ambiente di vita e al proprio domicilio”; “garantire la continuità dell’assistenza anche attraverso l’implementazione di percorsi assistenziali e l’integrazione tra sociale e sanitario”.
Dove sono le strutture territoriali? Dove sono gli ospedali di comunità di cui si parla anche all’interno del recente Piano Ospedaliero? Come si riattivano gli ambulatori, oggi bloccati da liste d’attesa spaventose? Quando si comincerà davvero, e non solo a colpi di documenti e decreti, a costruire la sanità del territorio? Quando vedremo una radicale riforma del sistema costoso e inefficiente della medicina di base?
Dopo un incontro con il governatore De Luca e il direttore dell’Asl Napoli 1 Elia Abbondante, l’indirizzo riabilitativo del San Gennaro pareva essere stato “corretto”, prevedendo all’interno della struttura il mantenimento del primo soccorso e una struttura ambulatoriale; un accordo informale, nato dalla spinta del presidio popolare ma che al momento è ancora fermo al palo. Legittima allora la domanda del cittadino, che si chiede per quale motivo, se tutto è così chiaro e condivisibile nella normativa vigente, niente di significativo accada. Perché sembra sempre che un sistema sanitario di straordinaria potenzialità non riesca mai a risollevarsi definitivamente da questa situazione sempre prossima al collasso? Cosa manca? Semplice. Il denaro.
È persino banale osservare che la mancanza d’investimenti è la questione centrale, rendendo impossibile realizzare l’altro aspetto della riorganizzazione della sanità regionale, lo sviluppo di una vera rete di assistenza territoriale non ospedaliera e la riforma della medicina di base, in un piano complessivo di trasformazione dentro cui il dibattito politico, poi, dovrebbe provare a orientare i processi. Oggi la mancanza di risorse finisce per essere pesantissima, presentando ai cittadini solo una delle facce del processo, la meno produttiva e la più odiosa: i tagli e le chiusure, che se non hanno un corrispettivo in nuove modalità di assistenza pubblica efficienti, rigorose nel controllo della spesa, vicine ai cittadini, sono solo l’ennesima manifestazione di quanto precarietà e incertezza abbiano pervaso ormai tutti gli aspetti del vivere civile. (antonio bove)