Con P., undici anni non ancora compiuti, ho provato a parlarci a bordo campo, convocandolo mezz’ora prima che i suoi compagni di squadra arrivassero per la partita di campionato. Abbiamo provato a ragionare sul casino che era successo il sabato precedente, che lo aveva visto protagonista prima per strada e poi sui giornali. «Hai ragione, mister – mi ha detto convinto –. Ma mi devi credere, è già un po’ che sto cercando di levarmi da mezzo alla strada».
P. è uno dei dieci-quindici ragazzini del quartiere che rompono le palle a tutti. Non molti, se si pensa alla densità abitativa del posto. Non siamo in centro storico, né tra i palazzoni di periferia. Per le strade non sono tanti gli adolescenti al bivacco, quelli che sfrecciano in stormi di motorini o che ciondolano tutto il pomeriggio in attesa dell’ora di cena. Quello di P. è un quartiere popolare ma bello. Ci sono case con vista mare, e ladri di batterie di automobili che tormentano gli abitanti; c’è una scuola d’avanguardia che attira iscritti dai quartieri benestanti, e ci sono angoli di strada in cui l’immondizia si accumula per settimane. Ci sono locali notturni che macinano centinaia di migliaia di euro, mettendo a dura prova i timpani degli abitanti (che dopo aver respirato per decenni polveri sottili speravano di potersi finalmente godere un affaccio sul mare), e un tasso di disoccupazione tra i più alti della regione.
L’isola che non c’è
Nel lungo viale pedonale che taglia a metà il quartiere, il via vai di ragazzini è sopportato a stento. I bambini giocano a pallone, disturbando gli adulti che vorrebbero riposare sulle panchine, si rincorrono, si lasciano attirare da questa o quella avventura urbana attraversando strade che mantengono nei loro confronti i residui di quel senso di comunità che le hanno caratterizzate per sessant’anni. La linea di confine che segna il limite di tolleranza è anagrafica. Se i bambini dell’isola pedonale che tirano pallonate nelle saracinesche sono più o meno tollerati, l’approccio degli adulti cambia nei confronti di quei tredici-quattordicenni considerati ormai spacciati, pericolosi e fuori da ogni possibile circolo relazionale. Hanno solo due o tre anni in più degli altri, anche se, naturalmente, altre esigenze e comportamenti. Quando giocano a pallone lo fanno stando attenti a non sporcarsi le scarpe nuove; si vestono e si pettinano in maniera curata, organizzano gruppi WhatsApp no-sense con centinaia di coetanei, vanno al pub e buttano le carte sporche d’olio fritto per strada. Rispetto ai piccoli, sono più imprevedibili: se ti sfottono e gli rispondi a tono possono lasciarti perdere oppure darti addosso in quattro, a seconda di come gli gira; le loro risse sono diverse da quelle dei piccoli, che si picchiano per decidere se era rigore o meno, fino a che, qualche volta, qualcuno tira fuori un coltellino e la tarantella si fa più grossa. Per tutte queste ragioni sono loro i nemici del quartiere e P., nonostante non abbia nemmeno undici anni, frequentando ragazzi più grandi di due o tre classi, è come loro evitato e considerato come la peste.
L’acredine nei confronti di questi ragazzi è il riflesso di un’emarginazione crescente non delle famiglie più povere (l’estrazione sociale dell’area è sempre la stessa, anzi l’impoverimento è in crescita) ma di quelle che vivono al di là dei parametri di civiltà socialmente accettabili. Se il quartiere sta prendendo le misure per un vestito nuovo che è in sartoria da decenni (sulla cui stoffa sono disegnati alberghi per ricchi, ristoranti sul mare, wine bar e gelaterie bio, attici agli ultimi piani di ex palazzine popolari), parallelamente la povertà e il disagio sono sempre più pericolosi, perché incompatibili con l’Eden che tutti credono possa comparire dal nulla, prima o poi.
La soluzione è quella di nascondere la povertà, più che di eliminarla, e chi non lo fa è mal sopportato. È mal sopportato il rigattiere col suo treruote scassato che ti chiede ogni giorno se hai una cantina da svuotare; è mal sopportata la signora che dorme alla fermata del bus davanti la chiesa; è mal sopportato il “tossico di merda”, chi vuole i pacchi dalla Caritas, ma anche chi il suo disagio lo esprime in maniera diversa; mentre il sarto è sempre impegnato col vestito, il nemico assume le forme di quello che urla o sporca l’isola pedonale, quello che organizza il festone col cantante neomelodico, quello che la batteria della macchina non te la ruba, ma ti dà il numero di un elettrauto che te ne può rivendere una usata (che poi probabilmente è la stessa che ti hanno fregato). In questo contesto, non c’è niente di peggio che P., i suoi amici, e il loro modo di stare in strada.
Un territorio ostile
Qualche giorno fa ho incontrato P. per caso e abbiamo passato il pomeriggio insieme. Abbiamo dato un’occhiata al parchetto che alcune persone del quartiere stanno rimettendo in sesto, e mi ha mostrato gli interventi che lui stesso ha fatto con alcuni operatori dell’educativa territoriale che, “quando ha voglia”, frequenta; abbiamo osservato i lavori in corso in un rettangolo di cemento che dopo anni di abbandono, in cui i ragazzini hanno giocato tra i topi e l’amianto, le Ferrovie dello Stato (proprietarie dell’area) stanno adibendo a campo di basket; siamo andati a fare allenamento alla scuola calcio, dove i mister, dopo il casino di qualche settimana prima, gli hanno proposto di dare una mano in qualità di “assistente”, quando ad allenarsi sono i più piccoli. P., quando assolve questo compito, è un’altra persona: sveglio e vivace (ma questo non stupisce), ma anche riflessivo e metodico. Ha cali di concentrazione ma anche senso di responsabilità. Alcuni genitori che all’inizio avevano storto il naso, si sono stupiti nell’osservarlo interagire con i bambini più piccoli.
Naturalmente P. si stancherà presto, e la sua vita in strada (che comunque ha tutt’altro che abbandonato) tornerà a prendere il sopravvento. Anche le attenzioni che quei cinque o sei adulti gli stanno dedicando non basteranno più, soprattutto perché basate su volontà e tempo libero, che sono fondamentali, ma non sono mai bastate a fare una rivoluzione, figuriamoci a farla durare. Anche perché, da tutti gli altri, P. continua a essere considerato come la peste. A scuola i suoi insegnanti hanno rinunciato a qualsiasi velleità educativa, arrendendosi a un muro contro muro di rapporti-insulti-punizioni-“vaffanculo, sta cessa” che è il presupposto perfetto per l’emarginazione anche da parte dei suoi compagni, che non lo vedono nemmeno più come un coraggioso, ma come uno che “va oltre” (escluso altri emarginati, che cercano la sua approvazione per stare in un gruppo). I genitori degli altri bambini – compresi i progressisti della scuola di eccellenza che P. frequenta – fanno la loro parte, scavando quotidianamente un abisso tra i loro figli e “quegli altri”, dipinti bisbigliando da un orecchio all’altro come teppisti, camorristi, indesiderati (magari non a parole ma nei fatti) nelle loro case e per molti anche sul campo di pallone. Nessuno o quasi riflette sulle conseguenze di quest’atteggiamento e sui suoi effetti, quando poi “quegli altri” si trovano giornate intere in strada, in un contesto che solo uno stupido non percepirebbe come ostile. Nessuno o quasi si interroga sulla necessità di dare voce a questi ragazzi, di sforzarsi alla comprensione e all’ascolto, senza per questo essere indulgenti nei loro confronti. Una pratica che dovremmo a P., come a Z., a J., a M. e a C., se non altro per riempire quel fossato che gli stiamo scavando intorno, qui persino più profondo che altrove. (riccardo rosa)
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