I disastri avvengono nel punto di congiunzione tra ambiente, tecnologia e società, all’intersezione della pratica umana e della materialità ambientale, ossia in base alla natura dei luoghi, alla (in)adeguatezza delle strutture, alla presenza o assenza di controlli. Come evidenziano Carnelli e Forino, l’entità di una calamità dipende dalla vulnerabilità, che è un fattore sociale e, dunque, politico: si tratta dell’insieme di condizioni che, legate alle diseguaglianze (di reddito, età, genere, etnia, religione, classe sociale, lavoro, dis-abilità), risultano preponderanti nella creazione del rischio e, di conseguenza, nella manifestazione del disastro. Il rischio, in altre parole, dipende dai problemi strutturali delle società, per cui le soluzioni non vanno ricercate solo nella riduzione della pericolosità, ossia nei fattori tecnico-fisici, bensì nelle disparità sociali, ambientali e spaziali tra i cittadini e tra i territori, interessano cioè i servizi pubblici, la discriminazione e la marginalità, l’accesso alle risorse e il reddito.
Attraverso la pagina Facebook Rischio Vesuvio: informiamoci e attiviamoci abbiamo la possibilità di effettuare un monitoraggio quotidiano su ciò che attiene al rischio geofisico (e sociale) nella provincia di Napoli, per cui oggi, in chiusura dell’anno, è possibile gettare uno sguardo d’insieme su determinati fatti del 2017 ed esprimere qualche considerazione più ampia rispetto ai commenti sui singoli fatti di cronaca.
Nella provincia partenopea gli ultimi dodici mesi sono stati teatro di almeno quattro eventi disastrosi di tipo geofisico, ingegneristico e naturalistico, che esplicitano la vulnerabilità dell’intera area, urbana e non: da un lato hanno provocato la morte di tredici persone e, dall’altro, hanno causato danni per milioni di euro. In ordine cronologico, si tratta del crollo di Torre Annunziata, degli incendi nel Parco Nazionale del Vesuvio, del terremoto di Casamicciola e, infine, della tragedia nella Solfatara.
La friabilità di Torre Annunziata
All’alba del 7 luglio, a Torre Annunziata, una palazzina è collassata, uccidendo otto persone, le famiglie Cuccurullo e Guida, tra le quali due bambini. Decine di uomini hanno scavato a mani nude alla ricerca di qualche sopravvissuto, ma invano. Per due giorni la cittadina vesuviana è rimasta senza fiato, trovando un flebile conforto solo in un corteo silenzioso che ha attraversato le vie del quartiere qualche giorno dopo e, nuovamente, dopo tre mesi. Sono state avviate indagini per omicidio colposo e, da principio, si è fatto riferimento a lavori inadeguati alla struttura per realizzare un b&b e, immancabilmente, anche a infiltrazioni criminali. Giudici e perizie stabiliranno le cause e le conseguenze di quanto accaduto; eppure, in base al contesto, ci sono elementi di cui siamo già a conoscenza: il patrimonio abitativo (italiano, ma qui vogliamo restare ancorati al caso napoletano) è spesso degradato e inadeguato, vecchio o realizzato senza opportuni controlli. Non di rado ospita persone che non possono permettersi un ricovero sicuro, ossia poveri, immigrati, clochard, per cui risulta urgente riqualificare l’esistente, dove possibile, o fornire edilizia pubblica a chi non può permettersi una casa, proprio perché sono spesso le fasce meno abbienti a risiedervi. In altre parole, il dramma di Torre Annunziata non è né isolato, né improvviso. Da anni, senza che intervenga un evento geologico (sismico o vulcanico), nel vesuviano si registrano crolli sia nell’area archeologica degli scavi di Pompei, sia, appunto, nelle aree urbane, dove palazzi residenziali sono crollati a Torre del Greco, a Ercolano, a Portici e nella stessa Torre Annunziata, per limitarci alla sola fascia costiera. Evidentemente, un censimento di tali eventi e, soprattutto, un inventario dello stato di conservazione del patrimonio edilizio sarebbe non solo utile, ma indifferibile.
Viviamo in città con palazzi ancora lesionati dal sisma del 1980, tra edifici inagibili che non vengono sgomberati e abbattuti o ricostruiti; chi è impossibilitato a restaurare non viene sostenuto e, quando si effettuano lavori di consolidamento e adeguamento, non sempre si verifica la loro tenuta. Ciò che il crollo di Torre Annunziata ci ricorda è lo stato di fatiscenza e abbandono dello spazio urbano intorno al Vesuvio, dove si muore per il crollo di un calcinaccio, di un balcone, di un edificio intero; città caotiche e, al contempo, lasciate a loro stesse, le cui problematiche andrebbero affrontate con un piano sovra-comunale (regionale e nazionale) di natura urbanistica e sociale.
Le ceneri del Vesuvio
Dai primi di giugno alla fine di luglio, per oltre un mese, il Parco Nazionale del Vesuvio ha bruciato praticamente tutti i giorni, in più punti del suo territorio. Dopo settimane di sforzi enormi per domare i roghi e di giorni di allarme per il pericoloso avvicinarsi delle fiamme ad alcune abitazioni, un terzo della superficie dell’area protetta risulta bruciato, distrutto in tutto o in parte, come nella storica riserva speciale dell’Alto Tirone (istituita nel 1972, oltre venti anni prima del Parco Nazionale, che è del 1995). Immediatamente si è messa in moto la narrazione sul “disegno criminale”, alternativamente attuato dai piromani (che è una categoria a cui non si dovrebbe più far riferimento, dal momento che si tratta di una patologia psicopatologica) e dagli incendiari (i quali agirebbero per non si sa quali specifici interessi o, più ampiamente, per conto della camorra); a questo proposito è stata fermata un’unica persona, accusata di aver appiccato il fuoco a un ettaro del territorio di Torre del Greco, mentre gli eventuali autori delle fiamme che hanno cancellato altri 1.979 ettari sono ancora ignoti.
L’impressione più fondata, tuttavia, è che la causa principale dei roghi sia da rintracciare essenzialmente nello stato di abbandono del territorio, nella negligenza delle istituzioni e nell’assenza di una minima pianificazione della sicurezza. Ne è prova il fatto che già nelle estati del 2015 e del 2016 si erano avuti incendi estesi e disastrosi, ai quali, evidentemente, non sono seguite adeguate misure di prevenzione, a differenza di quanto era stato annunciato. L’emergenza è stata affrontata con mezzi e operatori, ma anche con volontari che, spesso autonomamente, sono andati a scavare trincee tagliafuoco e a proteggere le abitazioni più isolate ed esposte. Sono costoro a fornire le dimensioni del disastro, dal momento che la reazione emotiva e concreta di tanti residenti è stata straordinaria, sia sul fronte di fuoco che in piazza a protestare, sia per dare soccorso agli animali scampati che, nei mesi successivi, quando sono emerse vecchie e nuove associazioni per la cura e la rinascita dell’area: “Sebbene brutalmente, [il rogo vesuviano] ha ricordato che il rischio è un concetto complesso strettamente connesso all’equilibrio che una determinata società è in grado di trovare col proprio ecosistema“.
La scossa di Casamicciola Terme
La sera del 21 agosto una scossa sismica ha colpito il centro abitato di Casamicciola Terme, sull’isola d’Ischia: sono crollati edifici abbandonati, è stato fatto evacuare l’ospedale e parecchi turisti hanno preso d’assalto i traghetti per Pozzuoli e Napoli. Soprattutto, però, sono morte le signore Lina Balestrieri e Maria Pesce, sono rimaste ferite decine di persone e due bambini sono stati salvati dalle macerie dopo tredici ore di apprensione. Il terremoto è stato di magnitudo quattro, ma piuttosto superficiale (1,73 km di profondità, in prossimità di piazza Maio). Dopo il salvataggio dei fratellini, il discorso pubblico che ne è scaturito si è diviso in due filoni principali: l’abusivismo edilizio e il dibattito scientifico in merito al calcolo della magnitudo e alla localizzazione dell’ipocentro. In merito al primo aspetto, a Ischia l’abusivismo è certamente presente in maniera massiccia, come in diverse altre zone d’Italia, e questo pone problemi enormi su vari fronti, ma quel che appare più grave è l’urbanizzazione tout-court, dunque anche quella legale, che ha invaso l’isola negli ultimi decenni. Ischia, infatti, andrebbe considerata una ex “Isola Verde”, per cui far riferimento al solo abusivismo è nient’altro che un espediente retorico di colpevolizzazione delle vittime, nonché uno stratagemma per un paradossale attacco agli ambientalisti, come fatto da talune autorità. Per quanto riguarda il secondo tema, inizialmente i ricercatori hanno avuto delle difficoltà nella misurazione della magnitudo, per cui vari studiosi hanno polemizzato tra loro sui media e i socialmedia, delineando un quadro di rapporti interpersonali piuttosto logori, ben al di là del dibattito e del confronto accademico, lasciando più di qualche preoccupazione sugli effetti che tali lacerazioni possono avere sulla percezione sociale del sapere scientifico e delle sue istituzioni (a cui si accompagnano ulteriori ombre lanciate nel mese di ottobre sulla gestione dell’Osservatorio Vesuviano). Al di là di questi due argomenti, tuttavia, la domanda essenziale posta dal terremoto di Casamicciola riguarda soprattutto l’urbanizzazione eccessiva (se non la cementificazione scriteriata, legale o illegale che sia), la fragilità strutturale degli edifici (spesso costruiti in fretta o di nascosto o al risparmio), l’inadeguatezza di talune costruzioni (non di rado vecchie o sovraccaricate nel tempo). A questo va aggiunta qualche riflessione sulla macchina degli aiuti sull’isola, in particolare sull’esistenza di un piano di emergenza e di un piano di evacuazione ischitano, sul necessario catasto dei palazzi sismici e antisismici, sullo stato di conservazione dei monumenti storici e culturali, sui luoghi di assembramento e primo soccorso in caso di allarme, sull’informazione agli abitanti e ai turisti.
La voragine della Solfatara
A mezzogiorno del 12 settembre, all’interno del cratere puteolano della Solfatara, un bambino di undici anni, Lorenzo, è scivolato nella “Fangaia”, una voragine profonda due metri e mezzo apertasi nei giorni precedenti a causa delle piogge. Per salvarlo, sono accorsi i due genitori Massimiliano e Tiziana Carrer, ma sono morti anche loro; si è salvato solo il fratellino più piccolo, Alessio, di sette anni. Erano originari di Torino, ma vivevano a Venezia ed erano in gita a Pozzuoli. Ciò che ha ucciso i tre turisti è stata la forte concentrazione di anidride carbonica nella sacca in cui sono caduti, che in pochi minuti ha fatto perdere loro i sensi e la vita. Eppure non è solo quel gas micidiale ad aver distrutto la famiglia: per quanto il guizzo di un bambino sia imprevedibile e sebbene quella zona fosse interdetta al pubblico e il divieto fosse segnalato da cartelli e da una staccionata con reti, è comunque evidente che le misure di prevenzione non sono state sufficienti: ci si domanda se esista una squadra per le emergenze, a cosa serva la videosorveglianza se non è stata in grado di far scattare repentinamente un allarme, se sia previsto un guardiano che, con fischietto, segnali la violazione dei divieti. Ogni anno il luogo – l’unica area vulcanica del mondo gestita da privati – è visitato da duecentocinquantamila persone e se, come pare, in quarant’anni non si è verificato alcun incidente, allora bisogna considerare un ulteriore elemento, ossia una possibile sottovalutazione del pericolo – almeno in merito a determinate categorie, come i bambini – dovuto a un progressivo rassicurazionismo costruito nel tempo.
Senza dubbio, una comunicazione costante e mirata sulle caratteristiche dei territori sismici e vulcanici (ne abbiamo scritto per il caso del comune di Napoli) appare una necessità concreta per informare e coinvolgere la popolazione e i visitatori; basti pensare ai fenomeni fumarolici che attualmente si stanno verificando e intensificando anche fuori dalla Solfatara, come in località Pisciarelli, e intorno ai quali va montando una certa inquietudine. Va dunque pensato e realizzato un piano di comunicazione ad hoc, che sia rivolta a diversi destinatari e che fornisca informazioni concrete sul cosa fare in caso di urgenza (autoprotezione e primo soccorso) e, soprattutto, sul dove andare e a chi rivolgersi.
Una visione olistica, priorità per il futuro
Dal Vesuvio alla Solfatara, da Casamicciola a Torre Annunziata, i quattro eventi disastrosi che nel 2017 hanno colpito la provincia di Napoli sono certamente fatti diversi, ciascuno legato a un suo specifico processo causale, eppure, al di là della semplice comunanza geografica, rappresentano anche aspetti di un’unica problematica: la relazione col territorio, che di volta in volta si declina in sfruttamento, abbandono, consumo, indifferenza. Recuperare un rapporto con l’ecosistema, a maggior ragione in una regione soggetta a fenomeni sismici e vulcanici, è un imperativo che non si può più ignorare. “La sfida – osserva Maria Pace Ottieri – è riallacciare un legame coi luoghi che sia innanzitutto intimo”.
I disastri, dunque, non vanno considerati unicamente come eventi drammatici già accaduti, bensì anche come scenari futuri: sono qualcosa che può ripetersi, anzi che si ripeterà, per cui abbiamo il dovere di abbassare l’esposizione al rischio, da un lato riacquistando una relazione più equa con l’ambiente e, dall’altro, colmando le disuguaglianze (sociali, economiche e così via) che, nel corso dei decenni, hanno generato e sviluppato l’attuale livello di vulnerabilità. Secondo i dati forniti da Gerardo Lombardi, vice presidente dell’Ordine dei geologi della Campania, nonché coordinatore della Commissione Protezione Civile, nella regione quasi due milioni di abitanti vivono in aree a rischio e 865.778 sono gli edifici pubblici e privati interessati; nel febbraio scorso i comuni campani a dover ancora aggiornare i propri Piani di emergenza comunale secondo la nuova normativa nazionale erano duecentotrentatre, alcuni dei quali anche della zona rossa vesuviana.
Il rischio geo-sociale non va più parcellizzato e trattato come un elemento a se stante, va bensì considerato nel suo insieme, ossia in una trama di esiti, conseguenze, prodotti, reazioni, risultati. Ciò significa che deve essere affrontato soprattutto come una questione culturale e politica, quindi di visione del mondo: per parlare di reale prevenzione “è necessario immaginare nuove forme di mediazione tra scienziati, operatori umanitari, legislatori e popolazione, ma anche avviare pratiche di sussidiarietà fondate sulla collaborazione tra amministrazione e cittadini”. È opportuno elaborare risposte coraggiose e inedite che affrontino il rapporto città-campagna, l’urbanizzazione (tra legale e illegale), le infrastrutture e la loro manutenzione, nonché la partecipazione, la sussidiarietà e la governance. I disastri non vanno più considerati come eventi naturali e/o improvvisi, ma come processi storici e sociali, ribaltando completamente la logica dell’emergenza, perché dipendono da patologie accumulatesi nel tempo, delle quali bisogna spezzare la catena di produzione individuando le singole responsabilità. Per fare un esempio, nel caso del Vesuvio post-incendi c’è inquietudine per il rischio idrogeologico che può presentarsi durante i mesi invernali, ma c’è anche agitazione intorno ai progetti di bonifica e di ingegneria naturalistica da intraprendere quanto prima e che richiedono sia una manutenzione in sé, che una cura costante della rete sentieristica: se un forte acquazzone dovesse far scendere lungo i pendii una colata di fango, non sarebbe una calamità improvvisa o imprevista.
Al di là dell’empatia con vittime e soccorritori, dalle quattro esperienze descritte traspaiono i limiti istituzionali, le numerose falle nel sistema di difesa del territorio, l’assenza di manutenzione dei boschi e degli edifici, lo stato di abbandono urbano e rurale, la mancanza di controlli e ispezioni, il vuoto di pianificazione e di lungimiranza.Il futuro del territorio partenopeo, la sua “rinascita”, ci sarà solo avendo ri-guardo dei luoghi, ossia avendone curae osservandoli nel loro insieme. (giovanni gugg e clementina sasso)