I CoSang, duo hip hop di Marianella, escono con il loro secondo lavoro, Vita Bona. Versi rabbiosi che si nutrono dell’immaginario della città paracriminale ma senza tradimenti. Contro il politicamente corretto che alimenta lo spettacolo del male
In tempi non sospetti sollevammo un dubbio. Forse provavamo soltanto a ragionare, cercando di non farci trascinare da un moto entusiasta, da una macchina spettacolare che stritola le migliori intenzioni. Non abbiamo mai definito il male, cercando invece di attraversarlo, di capirne le radici, di leggerne la genealogia. Ci chiedevamo degli effetti dell’ingresso dell’industria culturale nelle logiche di rappresentazione criminale, delle storture che quello che abbiamo chiamato “lo spettacolo del male” avrebbe avuto sull’immaginario complessivo della nostra città, della nostra regione, del nostro paese. Dopo alcuni anni i CoSang ci ricordano nel loro ultimo album che è necessario un Momento di Onestà, un momento di riflessione su tutto ciò che ha preso forma nella musica, nel cinema, nella letteratura riguardo alla rappresentazione del male, o meglio rispetto alla narrazione di uno stile di vita, di un desiderio, di una tensione caratterizzati da un miscuglio di elementi dettati da una modernizzazione ulteriore del sottoproletariato napoletano.
È necessario un momento d’onestà / Voi fate i nomi del sistema e non quelli dello Stato / Per questi quartieri siamo stelle sotto il soffitto / E questa è la roba più vera che abbiamo mai scritto.
La diffusione capillare delle organizzazioni camorriste non è un problema di mero ordine pubblico o di contropotere sociale ma un dato endemico nell’assenza di un progetto di sviluppo sociale, economico e culturale che attanaglia il Mezzogiorno italiano. C’è chi ha ricercato a tutti i costi la parola giusta, la chiave per aprire le porte a un successo che è stato strabiliante per alcuni ed effimero per altri. Il momento di onestà che viene cantato è una rivendicazione di coerenza, di qualcuno che è “a favore dell’emozione” e che continua a vivere, nonostante tutto, negli stessi posti che sono diventati lo scenario, o meglio la scenografia dello spettacolo del male. In molti hanno tentato di saltare sul treno del vincitore contribuendo a una narrazione del male ormai stereotipata, che invece di creare contraddizioni e crepe, alimenta l’autoesaltazione e la fascinazione di un linguaggio, di pratiche e valori che sono diventate un modello comportamentale per giovani, meno giovani, giornalisti e scrittori in cerca di scorciatoie spettacolari, un granello di polvere di successo. Constatare il successo di eccellenti prodotti culturali non significa soggiacere al crescere di un sottobosco narrativo di mezza tacca, di ammiccamenti e facili promesse fatte a chi gli strumenti culturali per difendersi non li ha mai avuti.
Una metafora, o un singolone per tutta la nazione / Agendo in un vulcano scoppiato molto prima di Saviano / Viaggiamo con l’autostrada pagata / “Il Professore” ha insegnato qualcosa a “Gomorra” quest’anno / Devo colpire chi lucra sul mio dialetto / Annientando carriere, svegliando quartieri / E ogni fan è un figlio.
L’ultimo lavoro dei CoSang consacra l’uso di termini senza mediazioni. “La nostra lingua l’hai sentita nelle rapine”, dicevano in uno dei tanti pezzi usciti tra il primo e il secondo album. Purtroppo spesso è davvero così: una parte della città prende in considerazione le vite più marginali e problematiche – ascoltandone i “suoni infami” –, solo quando il sonoro schiaffo fatto partire da un motorino in fuga li ha colpiti in pieno viso. Forse dietro l’apparente vigliaccheria di certi gesti si cela un più profondo senso di frustrazione da dominati?
“La ricerca del gergo è la ricetta”. A differenza di quanto avviene nella maggior parte della produzione culturale cittadina – dove il dialetto, quando non è lingua morta, è mortificata, eduardiana fuori tempo massimo, esasperata quando vuole essere popolare – nella ricerca di ‘Nto e Luchè, le due voci del gruppo, la lingua è elaborata, come avviene anche nei pezzi dei Fuossera, il gruppo rap di Piscinola che insieme ai CoSang formano la scuderia dell’autoprodotta etichetta “Poesia Cruda dischi”. Il risultato può piacere o no, ma è indiscutibile il lavoro di sezionatura chirurgica, rimontaggio, riorganizzazione metaforica e sonora (è ‘na casbah ccabbash). Un lavoro teso alla costruzione di immagini efficaci, rapide, condensate. E la sintesi sembra essere il dono migliore di questa lingua poetica. Le migliaia di pagine scritte in questi anni sulla faida di Scampia non rendono l’idea come Amic Nemic, che in quattro minuti ci catapulta senza filtri in un contesto che nonostante sia abusato dai media resta ancora sconosciuto ai più, come ci è fatto presente in Nun saje niente ’e me.
Dove la vita è tosta lo è anche la lingua. Lo notava già Patroni Griffi nell’83 con Cammurriata dove due personaggi discutendo del loro dialetto dicono:
Io non so’ volgare comme site vuie, io nun parlo lazzero accussì.
Tu parli mezo cazetto.
E che vuol dire mezo cazetto?
È ‘o napulitano ca parlano ’e napulitani pe s’aggrazzià chilli che nun so’ napulitani. È ‘na lengua ruffiana ca niente tene a spartere c’ ’a lengua napulitana chella verace ca nun te piace pecchè nun’a può parlà. A tazzulella ‘e cafè nun esiste… Esiste ‘o ccafè! Ne vurria ‘nu pucherille, nun se rice, se rice: Ràmmenne ’nu poco. ‘A lengua napulitana è lengua tosta!
I CoSang ci piacciono quando fotografano un mondo, filtrandolo attraverso la loro coscienza. Un po’ meno quando se la prendono con vecchie e nuove scuole, nemici immaginari, veri o falsi che siano. Del dissing, vecchio vizio del genere, possiamo tranquillamente fare a meno. La ricerca di notorietà, l’affermazione di una posizione alimentano lo spettacolo del male in una modalità insana, mentre i CoSang riaffermano uno stile lontano da compromessi, senza cercare le “briciole di qualcun altro”, senza andare a traino di fenomeni che alla lunga possono diventare un baraccone, un “regalo di natale” di una società dei consumi senza scrupoli. La denuncia, dicono i CoSang nel talking a margine del pezzo principale dell’album, non deve mischiarsi alla collaborazione, al facile flirt con ambienti ambigui di cui si attacca l’immoralità. Il momento d’onestà necessario, ribadito a ritmo hip hop, è quel processo intellettuale che mantiene autori, gregari e comparse lontano dal luccichio dello spettacolo del male.
Ma la senti la poesia? Strunz’! / Tu che ti appropri di una cosa che non è tua / Ora è una moda accusare la criminalità organizzata / senza rispetto per chi soffre, / io penso che dovreste solo ringraziarla / per la notorietà che vi ha dato. / E con questo non mi sto schierando, ma dimmi, che faresti se non ci fosse? Cosa diresti nei testi? Saresti capace di sentirti artista ugualmente? / La fama è una lunga strada e questa è la scorciatoia più banale.
Il disco Vita bona è un lavoro più maturo del loro primo album Chi more pe’ me. Abbiamo bisogno di narrativa in presa diretta, non superficiale, ancora meglio se fatta da chi quelle realtà le vive sulla propria pelle. Ascoltatelo con attenzione. (-ma / cyro)